Discussione

VUOI SAPERE COS'E' UN LEADER? TI RACCONTO IL MIO CAPO

Nel 1984 io abitavo a Stoccolma da 5 anni. Avevo studiato per un anno la lingua svedese, e poi per tre anni Amministrazione Aziendale. Dopo però, avevo trovato soltanto dei lavori semplici e a tempo determinato. Non credevo di poter arrivare mai a un traguardo importante. Per pagare le spese mentre studiavo, lavoravo facendo le pulizie in una sede della ditta Ericsson di Telecomunicazioni a Stoccolma. Così, conobbi Anette, una ragazza svedese che lavorava nella ditta come Segretaria di un Capo Sezione. Durante gli anni che studiavo diventammo amiche strette, amicizia che continuò anche quando io finii gli studi e non ebbi più bisogno di fare le pulizie all’Ericsson. Lei sapeva che io non riuscivo a trovare un lavoro adeguato, perciò fu una bellissima sorpresa quando mi chiamò per avvisarmi che nello stesso Reparto dove lei lavorava si era liberato un posto di segretaria, e mi diede il contatto dove inviare il CV. Lo feci immediatamente, ma non ero convinta. Il fatto di non aver trovato ancora un lavoro più soddisfacente aveva minato la mia autostima. Ero sicura che ci fossero molte altre persone candidate, io ero straniera, sicuramente il mio livello di svedese era inferiore a quello degli altri, non avevo esperienza sufficiente, l’Ericsson era una multinazionale importante, un posto di lavoro molto ambito. Contro tutte le mie previsioni, mi chiamarono per un colloquio all’ufficio di personale e qualche giorno dopo mi diedero un appuntamento per trovare il Capo Sezione dove c’era il posto disponibile. Arrivai puntuale all’ufficio della Segretaria Capo, ovvero la Segretaria del Capo Reparto, Sigrid. Il Reparto era diviso in sei Sezioni, in una di queste lavorava Anette e in un’altra Sezione si era liberato il posto di Segretaria. La Segretaria capo mi portò lungo un corridoio, si fermò davanti una porta chiusa e bussò. -Eccomi! - si sentì dall’altro lato. La porta si aprì, davanti a me c’era un uomo altissimo! Io alzai lo sguardo cercando la sua faccia, ma sembrava che l’uomo non finiva mai. A due metri dal pavimento vidi il suo viso guardarmi sorridente. -Un’altra straniera! Bene, adesso siamo in due! Io sono norvegese-. Questo fu il mio primo incontro con Knut Johansen, colui che sarebbe stato il mio capo durante tutti gli anni che lavorai all’Ericsson a Stoccolma. Knut (in Svezia si danno del tu e non si usano i titoli) aveva 52 anni, era alto, snello, con capelli bianchi, naso prominente e vivaci occhi blu. Il suo saluto mi aveva fatto sentire subito bene. Non so se l’aveva fatto perché aveva letto il mio CV e intuì i miei punti deboli, o se perché aveva notato nel mio linguaggio corporale la mia poca autostima, ma lui riuscì a trasformare in qualcosa di positivo ciò che per me era uno svantaggio: sembrava persino contento che io fosse straniera. Quello che era divertente era il fatto che tra svedesi, norvegesi e danesi non c’è grande differenza, sono stati lo stesso paese in diversi momenti della loro storia, le lingue sembrano tre diversi dialetti della stessa lingua, quindi che un norvegese si sentissi “straniero” in Svezia risultava divertente. Cominciai a lavorare come Segretaria di Sezione. Non potevo crederlo! Avevo trovato un lavoro a tempo indeterminato dentro l’ambito della mia specialità, in una ditta di prestigio e per di più nello stesso reparto dove lavorava la mia migliore amica. Come ho raccontato prima, il Reparto aveva sei Sezioni, ognuna con la sua segretaria; sopra di noi segretarie c’era Sigrid. Lei era molto brava a tenere il gruppo unito, assistevamo a riunioni frequenti dove scambiavamo idee, affrontavamo problemi e cercavamo soluzioni. Si organizzavano attività fuori lavoro, come gite, feste, gare sportive. Sigrid ci invitava tutte e sei a cena a casa sua minimo una volta al mese, erano riunioni spensierate dove si mangiava, si cantava, si rideva. Lei diceva che queste riunioni ci aiutavano a conoscerci meglio, e così dopo lavoravamo meglio, più unite, ci aiutavamo a vicenda e ci potevamo sostituire l’una all’altra in caso di necessità. Dopo un mese di inserimento, che passai leggendo tanti manuali e imparando la storia della ditta, quando cominciavo a capire meglio i miei compiti, Knut mi chiamò per parlare del piano di formazione. Lui voleva che io svolgessi anche alcuni compiti amministrativi che riguardavano la tecnologia. Come non ero ingegnere, dovevo acquisire conoscenze di base sulla telefonia, sulla programmazione, conoscere le regole interne riguardo la sicurezza nel lavoro e rinforzare i metodi per una comunicazione efficace con il resto dei compagni di lavoro. La responsabile della formazione delle segretarie e degli amministrativi si chiamava Elisabeth. Era stata la segretaria di Knut prima di me. Dopo quattro anni lei era arrivata al grado di poter cambiare mansione ed essere trasferita al reparto Formazione; ed io avevo preso il posto che lasciò vuoto. Knut era molto orgoglioso di lei e della carriera che aveva fatto. Mi disse: -Impara tutto quanto puoi da lei, ne avrai profitto, è una ragazza in gamba! E così feci. Lei diventò il mio modello da seguire. Elisabeth mi salutò con molto entusiasmo. Era curiosa di conoscere la sua “successora”. Mi chiese come mi sentivo lavorando con Knut e mi raccontò che lui l’aveva sempre spronata a fare più cose, a crescere professionalmente, perché sapeva che lei aveva molte risorse. Così, quando aveva deciso di cambiare lavoro, lui era stato molto contento per lei, anche se questo era costato perdere una bravissima segretaria. Questo mi confermò l’impressione che avevo di Knut, non si risparmiava con i complimenti per tutti. Ma per me era anche una grande responsabilità prendere il posto di una persona che faceva sentire la sua mancanza. Durante i corsi lei ci spronava ad imparare cose nuove, a provarci, a non rimanere ferme, a crescere! Sicuramente aveva capito quanta ragione aveva avuto Knut, e lei come buona allieva insegnava a noi ciò che lui le aveva insegnato anni fa. Con lei frequentai un corso che mi è utile ancora adesso: comunicazione efficace e linguaggio del corpo. Il compito amministrativo/tecnico che Knut aveva pensato per me, era l’aggiornamento virtuale dei prodotti disegnati nella Sezione. Se un articolo era obsoleto si doveva sostituire, se aveva sofferto qualche variazione questo si doveva indicare con un codice, se si trattava di un articolo nuovo esso si doveva registrare. Tutte le centrali dove si usava il prodotto aggiornato dovevano essere informate dei cambiamenti e in seguito dovevo controllare che le stesse avessero implementato gli aggiornamenti necessari. Tutto questo movimento dovevo registrarlo nel computer. Ma, per qualche motivo, non riuscivo a capire come svolgere questo lavoro. I PC erano di “vecchia generazione”, con schermo marrone e testo in giallo. Io vedevo solo una macedonia di nomi in codice, non capivo quali erano obsoleti, quali erano nuovi, e quindi cosa dovevo fare. Sentivo che l’unica cosa che raggiungevo era una grande perdita di tempo, tempo che dovevo togliere dai miei altri compiti. Frustrazione totale! Un giorno sentii che ero arrivata al punto in cui dovevo fare qualcosa. Andai da Knut parecchio infastidita e dissi: -Credo che darmi quel compito è stato uno sbaglio! Non capisco cosa devo fare! Non capisco niente! Per favore, non chiedermi di farlo, lasciami fare semplicemente la segretaria... Pensavo alle parole di Elisabeth, ma allo stesso tempo cercavo di convincere me stessa che non eravamo tutti uguali. La reazione di Knut mi disarmò. Mi disse: -Facciamo una cosa, proviamo ancora una settimana; io ti affiancherò un ragazzo che è molto bravo con questo sistema e ha molta pazienza, lui ti aiuterà. Ti chiedo solo una settimana. Passata la settimana, se hai ancora difficoltà, lasciamo perdere. Ma mi devi promettere che ce la metterai tutta. Va bene? -E va bene, dai! Vediamo che succede. Knut non disse niente riguardo il mio modo di parlare. Noi latini siamo impulsivi, esprimiamo i nostri sentimenti con l’espressione del viso, il tono della voce, la gesticolazione delle mani. Gli scandinavi sono più riservati, più contenuti. Era evidente che lui conosceva il nostro temperamento e sapeva come gestirlo; in una situazione di conflitto, bisogna prendere il controllo della situazione e portare la conversazione a buon fine. I primi due giorni continuavo senza capire niente; il terzo giorno capii che ogni prodotto aveva un’identificazione univoca. Il quarto giorno, tutto di un tratto, senza una spiegazione, capii come funzionava il sistema! Era come se i pezzi del puzzle fossero andati ognuno al proprio posto! Avevo capito la logica del sistema, e quindi come tutto funzionava! Andai subito all’ufficio di Knut, con la stessa impulsività della volta precedente ma in senso opposto: irradiavo felicità! -Hai vinto tu! -dissi sorridendo. -Lo sapevo! Io vinco sempre – rispose sorridendo lui. Aveva la capacità di scoprire i talenti nascosti delle persone e sapeva come sfruttarli. Il nuovo compito mi dava molte soddisfazioni. Era stimolante capire meglio il lavoro che facevano i miei colleghi ingegneri. Mi sentivo più utile. Non ero più soltanto una segretaria, la mia mansione era anche Product Administrator. Quando c’era qualche dubbio riguardo l’aggiornamento dei prodotti, i responsabili delle centrali chiamavano direttamente me invece di dover contattare due o tre progettisti; una sola persona poteva dare informazione su tutti i prodotti, il che significava risparmiare tempo. Parlavo anche con ingegneri di altri paesi. Insomma, grazie all’insistenza e alla pazienza di Knut che volle affidarmi questo compito, non ostante il mio iniziale rifiuto, sentivo che il mio lavoro era diventato importante, questo mi dava allo stesso tempo un senso di responsabilità, che mi motivava a imparare sempre più. Nel nostro Reparto c’era la tradizione di organizzare ogni anno la Festa del Reparto. C’era un collega molto bravo nell’organizzare feste, quindi lui aveva sempre questo compito. Chiamava a tutti “i nuovi”, cioè le persone che avevano iniziato a lavorare nel reparto durante l’ultimo anno. Questo era un modo per integrargli. Nel Reparto eravamo circa 250 persone, quindi generalmente affittava un locale grande solo per noi. Noleggiava alcuni pullman che ci portavano sul posto, organizzava la distribuzione dei posti per la cena, con molta cura nel disporre persone di Sezioni diverse attorno allo stesso tavolo. Durante la cena, si organizzava un piccolo “spettacolo” dove partecipavamo noi stessi: c’erano balli, scenette comiche, e canzoni dove si raccontavano scherzosamente aneddoti che riguardavano i Capi, e che facevano ridere tutti. Questo modo di ironizzare sui Capi, piuttosto che mancare loro di rispetto, ci faceva sentire ancora più rispettosi nel loro confronti, perché solo le persone di grande valore accettano l’ironia. A parte la festa del Reparto, nella nostra Sezione si organizzavano delle riunioni ogni due mesi, a casa di uno di noi. Portavamo ognuno qualcosa da mangiare, ballavamo e ci divertivamo. Era un modo molto bello di conoscerci meglio al di fuori del lavoro. Soprattutto vedevamo Knut come uno di noi, in quelle riunioni eravamo tutti amici, senza titoli, ne gerarchie, ne mura alzate tra lui e i suoi collaboratori. Perché noi non eravamo “subordinati”, eravamo “collaboratori”. Lui non aveva nessun problema se doveva mettersi un cappello divertente o se doveva scatenarsi ballando il twist con noi. In questo modo si creava un rapporto reciproco di rispetto, fiducia e stima nel lavoro. Se avevamo un problema personale che poteva influenzare il nostro lavoro, lui ci aiutava a superarlo, così da poter lavorare senza stress. Se c’era bisogno di lavorare più ore, noi capivamo, e ci stavamo con entusiasmo. Erano passati poco più di due anni, quando successe… Nelle grandi aziende bisogna ogni tanto fare ristrutturazione. Soprattutto le aziende che lavorano con Tecnologie dell’Informazione perché queste si sviluppano in continuazione. Il nostro Reparto anche. Non so di preciso il motivo, ma fu deciso che la nostra Sezione si unisse con una Sezione proveniente da un altro Reparto, inclusi Capo e Segretaria. Com’è naturale, poteva rimanere solo un Capo, e solo una Segretaria. Penso che il Capo dell’altra sezione avesse più esperienza di Knut nel nuovo prodotto che si sarebbe sviluppato, perché dopo la ristrutturazione lui divenne il nostro nuovo Capo e la sua Segretaria, Eva, la nostra nuova Segretaria (com’era da aspettarsi, il nuovo Capo preferì continuare a lavorare con la sua segretaria piuttosto che con me). Knut fu collocato nell’area amministrativa del Reparto, quella che si occupava di logistica, economia, risorse umane, e lavorava direttamente e soltanto con il Capo Reparto, senza “collaboratori”. Io rimassi nella Sezione ma i miei compiti furono ridotti all’amministrazione di prodotti, perché i compiti di segretaria li faceva l’altra, ovvio! Il cambio fu negativo per me. Il detto “dalle stelle alle stalle” mi stava cucito addosso. Il mio lavoro non copriva le otto ore della giornata, così nei momenti di vuoto mi annoiavo, non ero più motivata. Il nuovo Capo non mi considerava, non capiva esattamente quale era il mio ruolo, non ero né segretaria né ingegnere, quindi non sapeva che altri compiti mi poteva affidare. All’ora di pranzo, io scendevo nella mensa con Anette. Alcune volte trovavamo Knut insieme ai suoi nuovi colleghi. Nemmeno lui era contento. Gli avevano dato un lavoro importante ma lui non era fatto per lavori amministrativi, lui era un leader nato, fatto per guidare le persone verso gli obiettivi, e adesso non aveva nessuna persona sotto la sua responsabilità. Si sentiva “messo da parte”, non lo diceva mai direttamente, ma ormai avevo imparato a interpretare il linguaggio del corpo. Malgrado ciò, lui ci salutava sempre con entusiasmo e aveva sempre tempo per chiedere come stavamo; una volta, ricordando la mia protesta per la “mansione tecnologica” che mi aveva dato, gli avevo raccontato che era stata Anette ad avvisarmi che c’era un posto vacante come segretaria, e lui aveva scherzato dicendo: -Adesso so chi devo uccidere allora! Knut sapeva che eravamo molto amiche e trascorrevamo il tempo libero insieme, andavamo in palestra, al lago, a ballare, quindi i saluti finivano sempre con delle frasi da “papà”, tipo: -Mi raccomando, nei locali notturni non parlare con i maschietti ubriachi, sono tutti …. (e li appellò con un termine che è meglio non riportare), lo so perché ho due figli maschi. Noi ridevamo e rispondevamo: -Non ti preoccupare, noi ci prendiamo cura l’una dell’altra. -E’ proprio questo che mi preoccupa! Nonostante lui attraversasse un momento buio, aveva sempre tempo e un sorriso per gli altri. Non so se in quei giorni qualcuno aveva avuto tempo e un sorriso anche per lui, forse i suoi colleghi, io ero troppo giovane per capire che, nonostante i momenti bui, il leader deve sempre avere tempo e un sorriso per tutti. Senza motivazione per lavorare, i miei giorni erano tutti uguali e passavano lentamente. I due gruppi che adesso formavano la mia Sezione non si erano integrati completamente. L’atmosfera era un poco tesa, ma non c’era niente da fare se non che sperare che il tempo sistemasse le cose. Una volta, durante la pausa caffè, parlavo con Eva dei corsi che avevo fatto con Elisabeth, e di quanto questi erano interessanti ed importanti per la nostra carriera. -Dovresti andarci! -No, non mi interessa. A cosa mi servono? -A imparare più cose, potresti svolgere altri compiti, non solo la segretaria. -Io non voglio fare altre cose! Sono contenta facendo la segretaria! -Elisabeth dice che anche se non siamo ingegneri, possiamo crescere, fare carriera… -Ascolta, ti dico una cosa: alcune di noi pensiamo che Elisabeth è invadente e qualche volta anche aggressiva! Perché dobbiamo fare altre cose? Cosa c’è di male a fare la segretaria? Il suo tono di voce era un poco alterato, mi sentii a disagio, abbassai la voce: -Niente, non c’è niente di male… ognuno deve fare ciò che preferisce. Andai a salutare Knut, avevo bisogno di un consiglio: avevo fatto male? Ero stata invadente? Era vero che Elisabeth era aggressiva quando spronava le segretarie? Era sbagliato avere un’ambizione? Knut mi ascoltò con attenzione, non era più il mio capo, ma la sua capacità di sentire empatia era spontanea, non dipendeva della sua mansione, era parte della sua personalità. Capacità che sicuramente si era sviluppata con gli anni: era una persona molto più grande di me, con molta esperienza di vita, soprattutto nei rapporti con altre persone. -Tu hai detto ciò che pensi e hai fatto bene; devi sentirti libera di dire sempre ciò che pensi. Ma anche lei ha diritto di dire ciò che pensa e così ha fatto. Forse era meglio finire la conversazione quando ha espresso con decisione che non voleva fare altre cose. Noi siamo tutti diversi, abbiamo diversi modi di vedere la vita, ed è giusto così. Non ti devi sentire male se hai un’ambizione, se vuoi crescere; se hai un sogno lo devi seguire. Certo, devi essere cosciente che, più in alto volerai e più attirerai l’attenzione su di te, questo significa avere più conflitti con la gente. Sarai più ammirata ma anche più giudicata. E’ il prezzo che si paga. Sei tu che decidi. Elisabeth ha deciso di volare più in alto, e sono sicuro che ne è valsa la pena. Se decidi di farlo anche tu, ricorda: la gente parlerà sempre di te, se bene o male è irrilevante, se parlano di te significa che per loro tu sei importante! Dopo questa conversazione sentii che dovevo fare qualcosa per uscire dalla situazione in cui mi trovavo. Non potevo continuare così. Mi venne un’idea: chiedere un anno sabatico per fare uno stage, ma mantenendo il posto. In quell’epoca si poteva fare, sempre che lo stage avesse qualche collegamento con il lavoro che si svolgeva all’Ericsson. Così, parlai con uno zio in Peru, che faceva l’architetto e lavorava per la Pubblica Amministrazione stimando il prezzo dei fabbricati. Mi avrebbe fatto lavorare con lui, insegnandomi disegno tecnico, programmi di disegno digitale e valutazione dei costi di progetti. In questo modo avrei approfittato per tornare a casa, passare un anno con la mia famiglia e riflettere su cosa volevo fare nella vita. Oramai non sapevo nemmeno se volevo rimanere in Europa o se fosse tempo di tornare in Peru. Finito l’anno sabatico, se avessi deciso di tornare, avrei avuto un posto di lavoro sicuro, magari in un altro reparto; se avessi deciso di rimanere in Peru, la mia avventura in Europa sarebbe finita e avrei cercato in Peru un lavoro dove usare la esperienza acquisita. Si! Era una buona alternativa per uscire dallo stallo in cui mi trovavo, drastica ma efficace! Ma il destino può essere imprevedibile… Ero in ufficio quando chiamò Knut chiedendomi se potevo passare da lui perché mi doveva parlare. -So che stai pensando di prendere un anno sabatico per andare in Peru. Se non hai presentato ancora la domanda definitiva, avrei una proposta da farti. L’altro giorno sono andato a trovare una persona importante, molto importante. Anzi! La persona più importante dell’azienda! -Il guru di HF? (HF era la sigla della sede principale, dove si trovavano gli uffici del Consiglio di Amministrazione dell’Ericsson) -Proprio lui! L’aveva chiamato niente di meno che l’Amministratore Delegato, per un tema importantissimo. L’azienda aveva firmato un contratto con Telecom Australia, per la progettazione e implementazione del sistema ISDN (Integrated Services Digital Network), un innovativo sistema che sarebbe la base della telecomunicazione come la conosciamo oggi. Il gruppo che doveva gestire il progetto aveva fallito, c’erano importanti ritardi che incidevano nel budget e nella data di consegna. Il cliente aveva dato un ultimatum: l’Ericsson aveva un mese per presentare un informe reale sull’attuale situazione del progetto e per elaborare un nuovo piano delle attività, un nuovo budget e una nuova data di consegna. Ma si fidavano solo di una persona, un ingegnere che aveva lavorato con loro molti anni prima e che aveva lasciato un segno indelebile. Volevano lui come Project Manager. Quella persona era Knut Johansen. L’AD gli aveva dato l’incarico di elaborare una nuova proposta che fosse credibile e accettabile per il cliente australiano. Lui si era riunito con il precedente gruppo di lavoro, con i responsabili coinvolti e dopo un mese avevano presentato l’informe richiesto. Il cliente l’aveva accettato, con la condizione che la consegna non poteva ritardare di un solo giorno né si poteva aumentare il budget di un solo dollaro australiano. Caso contrario, avrebbero rescisso il contratto e incaricato per il progetto l’azienda tedesca Siemens. Così semplice quanto drastico! Avendo adesso una seconda opportunità, l’AD diede al progetto priorità speciale, tra le altre il Project Management aveva la facoltà di scegliere, tra i diversi reparti, le persone più adeguate a partecipare nel progetto; inoltre, lui ebbe carta bianca per fare ogni cosa che fosse necessaria all’esito positivo del progetto. Per agire in più autonomia, si formò un mini Reparto, al quale appartenevano solo le persone che formavano il Project Management Group: Knut era il Project Manager; un giovane ingegnere dell’area marketing di nome Thor era il vice PM; Erling controllava la documentazione e Kent, era il responsabile della fase di collaudo. Mancava una figura che potesse fare tutto il lavoro amministrativo restante, che ancora non era ben definito perché il progetto era diverso dagli altri e non c’erano precedenti. Knut aveva pensato a me per questa mansione. -Sarà una sfida, con tanto lavoro, molte cose dovremo inventarle strada facendo, perché è un progetto molto complicato, con molte novità, non ci sono precedenti da usare come guida. Dovremo lavorare molte ore e fare lo straordinario spesso, ma d’altra parte c’è da acquisire una esperienza unica, quando ci riusciremo ci apriranno tutte le porte! Potrai scegliere dove continuare a fare carriera. Ecco, quest’era la mia proposta. Sei sicura che vuoi tornare in Peru e lasciare perdere quest’opportunità? -Mi piacciono le sfide, quello è il problema… -Allora sei dentro? -Si, sono dentro. -sentivo curiosità, interesse, ambizione, paura. Adesso il problema era spiegare ai miei genitori che non tornavo in Peru come pensato. Anche se d’ora in poi sembrerà che mi trattengo troppo descrivendo il progetto, considero che è necessario raccontare quali erano le difficoltà che abbiamo dovuto affrontare, solo così si potrà capire veramente la capacità di Knut come leader. Il progetto sarebbe durato tre anni. Erano coinvolti quattrocento ingegneri, distribuiti in dieci paesi di Europa più un gruppo della filiale in Australia. Undici realtà diverse l’una dall’altra in quanto a idioma, infrastruttura, logistica, mentalità, persino il fuso orario giocava un ruolo importante. Era veramente una sfida! Ricordo la riunione di lancio del progetto. Eravamo nella sala riunioni più grande dell’Ericsson, un teatro con un palcoscenico e molte poltrone disposte su un pavimento in salita. Knut descrisse il progetto così come l’aveva fatto con me: senza nascondere le difficoltà! Il progetto aveva un ritardo di nove mesi. Avevamo tre anni per progettare, provare e consegnare il prodotto finale. Come se le difficoltà non bastassero, in Europa si stava elaborando il sistema di assicurazione della Qualità ISO 9000, e il progetto ISDN era stato scelto come progetto pilota per implementare i requisiti della qualità per la gestione di progetti. Uno dei requisiti era usare una metodologia che assicurasse la qualità in ogni fase del progetto. L’Ericsson aveva già assegnato un gruppo a questo proposito. Una volta approvata la metodologia, dovevamo seguirla, questo voleva dire che forse avremmo dovuto cambiare alcune procedure e riscrivere alcuni documenti mentre il progetto era in corso. Inoltre, la documentazione, che fino ad ora era stata scritta ed archiviata in forma cartacea, sarebbe stata trascritta a file digitali ed archiviata in una libreria virtuale che, anche essa, doveva essere ancora disegnata. Tutte le fasi del progetto dovevano iniziare e finire contemporaneamente in tutte le filiali e secondo la pianificazione; questo voleva dire assicurare, in tutte le undici filiali coinvolte, l’infrastruttura e la logistica necessaria a raggiungere lo scopo. Essendo un progetto multinazionale, tutti i documenti si dovevano scrivere in Inglese, la lingua ufficiale dell’Ericsson ma soprattutto la lingua del cliente. Durante le riunioni con le filiali si doveva parlare in inglese. Perciò si doveva migliorare il livello della lingua nei paesi che non l’usavano molto, come Spagna, Francia, Italia e Grecia. Telecom Australia voleva un rapporto settimanale specificando il progresso delle attività, la quantità di ore/uomo ed i soldi utilizzati e gli eventuali problemi sorti. Avrebbero controllato il progetto continuamente, non avrebbero accettato un solo giorno di ritardo. -Come potete apprezzare, sarà una passeggiata! -disse Knut per sdrammatizzare, e tutti risero. Dopo continuò con serietà: -Ragazzi, avete davanti a voi un compito molto difficile; io invece, davanti a me ho un gruppo molto speciale. Siete stati scelti perché siete i migliori, non solo per la vostra capacità professionale, ma soprattutto per le vostre qualità come persone. Insieme a voi, mi sento fiducioso, perché sarete voi a portare questo progetto in porto. Grazie della vostra presenza! Ci fu silenzio per alcuni secondi. Il discorso di Knut era stato molto particolare. Generalmente si cerca di addolcire un discorso per convincere chi ascolta a fare qualcosa di difficile senza aver paura. Invece, lui aveva presentato la situazione dicendo com’era realmente; ma con le ultime frasi, piene di elogi e fiducia, ci aveva convinto: Ci sentivamo veramente importanti, capaci, bravi…aveva tanta fiducia in noi che non lo potevamo deludere. Non potevamo deludere noi stessi, ci aveva fatto sentire davvero “molto speciali”, “scelti”…, quasi privilegiati per il fatto di fare parte del progetto; questo ci dava la motivazione e la convinzione sufficienti per affrontare qualsiasi difficoltà, e per crederci! La mia mansione era Project Administrator. Era una mansione nuova, nessuno l’aveva mai svolta prima, perciò io dovevo darle forma. Knut e gli altri due membri del Project Management avevano previsto le attività amministrative delle quali si sarebbero dovuti servire per la gestione del progetto. A poco a poco iniziai a ricevere i miei compiti. Sembrava che gli altri membri del Project Management avevano le mansioni ben definite, e buttavano da me tutto quello che avanzava, quello che non aveva una forma definita. Knut mi informava sul compito che dovevo svolgere, mi dava i nomi delle persone a chi dovevo contattare e mi lasciava agire. Poi ci aggiornavamo, sia che lui mi chiedesse come procedeva o che andassi da lui perché non avevo ottenuto il risultato desiderato. Era un buon metodo sicuramente, perché senza accorgermi stavo imparando come si gestiva un progetto e creando la mia propria rete di contatti. Soprattutto, stavo imparando a prendere l’iniziativa per risolvere problemi; all’inizio chiedevo sempre prima di agire, ma più il tempo passava più mi sentivo sicura e prendevo le mie decisioni. Il fatto di non aver un precedente da imitare, aveva un pro ed un contro. Da una parte era difficile inventare tutto da capo, con rischio di sbagliare o di non trovare la strada giusta. Dall’altra parte ero libera di fare, di essere creativa, di essere pioniera. Così iniziò la nostra avventura. In quell’epoca on c’era Internet, né la posta elettronica, né Windows. Ogni lunedì mattina facevamo una riunione che si prolungava fino all’ora di pranzo. Io prendevo appunti. Dopo pranzo cominciavo a scrivere il rapporto, raccogliendo informazioni da tutte le filiali. Il rapporto doveva arrivare in Australia tassativamente il martedì mattina, un documento pieno di informazione e quattro o cinque allegati tra tabelle e diagrammi, generalmente una ventina di pagine. Non c’era Internet, né posta elettronica, quindi il documento era inviato via fax. Spesso finivamo alle dieci o undici di sera. Con il fuso orario (9 ore), a Melbourne, dove stava la filiale, erano circa le otto o nove di mattina. In queste lunghe giornate di lavoro, Knut era molto attento a fare una pausa verso le sei di sera per portarci alla mensa a mangiare prima di continuare. Tra un panino e una birra, lui ci raccontava storie divertenti della sua vita, che ci rilassavano; uno dopo l’altro, cominciavamo anche noi altri a raccontare episodi che facevano ridere. Questo ci dava la carica necessaria per continuare a lavorare fino a mezzanotte, ma allo stesso tempo ci aiutava a conoscerci meglio, perché scoprivamo negli altri cose interessanti , che non avremmo mai immaginato. Il gruppo diventava sempre più affiatato, il che era molto importante considerando che dovevamo passare tante ore insieme per ben tre anni. La documentazione sarebbe stata archiviata digitalmente in una sola libreria virtuale accessibile a tutti gli integranti del progetto di tutte le filiali. Dei programmatori ci avevano fatto un prototipo, io dovevo creare una struttura provvisoria e insieme ai programmatori provarne il funzionamento, eventualmente cambiando la struttura, fino ad avere la libreria definitiva, facile da utilizzare, efficiente ed articolata. Una volta approvata la struttura, la libreria sarebbe stata distribuita agli 11 nodi e resa disponibile a tutti i coinvolti. Per poter disegnare la struttura, dovevo prima conoscere tutti i documenti del progetto che sarebbero stati archiviati. Parlai con Erling, che mi spiegò tutti i codici identificativi dei documenti, l’ordine in cui dovevano essere prodotti, e la quantità di documenti di ogni tipo che dovevano essere scritti in ogni filiale. Il lavoro di Erling dentro il progetto era finito, da allora in poi tutto sarebbe stato gestito dai computer, amministrato da me, e lui tornò al suo lavoro originale. Ero anche responsabile del controllo delle attività, riportando le ore/uomo registrate e i soldi utilizzati per realizzarle. Ogni settimana si confrontavano i risultati con la pianificazione. Ogni volta che si registravano più ore o più spese del previsto, o eravamo in dietro con qualche attività, si analizzava immediatamente il motivo e si prendevano le misure necessarie per ridurre il rischio di uscire dai limiti programmati. In un gruppo di quattrocento persone così disperse, era importante promuovere il senso di appartenenza al progetto. Nel budget era inclusa una somma per le spese di rappresentanza, che Knut pensò utilizzare per ordinare alcuni gadgets che portassero il nome del progetto, da distribuire a tutti. Lasciò a me il compito di sceglierli: orologi, borse da palestra, penne. Io avevo le liste delle persone che lavoravano nel progetto in ogni filiale, e avevo la responsabilità di inviare gli oggetti in quantità necessaria per tutti. -Assicurati che le liste siano aggiornate, -mi diceva- in modo che ci siano gadgets per tutti. Stanno facendo grandi sforzi e devono sapere che siamo riconoscenti, sarebbe imperdonabile lasciare fuori qualcuno. Questo compito mi piaceva da morire! A metà mattina lasciavo l’ufficio ed andavo al negozio. All’ingresso c’era un addetto che dava il benvenuto e ti offriva qualcosa da bere. Poi passavamo alla sala esposizione, dove c’erano tutti i gadgets. Era difficile scegliere, in quel mondo di creatività. Mi sentivo trattata come una regina, e soprattutto mi sentivo valorizzata, perché Knut si fidava di me e mi dava la responsabilità di disporre di una parte del budget. I ragazzi del progetto apprezzavano molto il gesto. A volte vedevamo in giro qualche ragazzo portando la borsa da palestra con scritto “ISDN”, e uno dei tanti nomi delle liste di partecipanti diventava anche un volto…perché, come diceva lui, “tutti conoscono la scimmia ma la scimmia non conosce tutti”! Knut viaggiava molto. Ogni due o tre mesi faceva il “giro delle filiali”, viaggi in cui si fermava un paio di giorni in ogni sede, con l’unico scopo di spronare personalmente i ragazzi del progetto. -Il Project Manager non deve essere come Dio, che tutti sanno che esiste ma nessuno l’ha visto. Devono sentire che io ci sono per aiutarli a risolvere i problemi. Chiedeva ai responsabili del progetto di ogni filiale di organizzare una riunione con tutti i coinvolti. Lui si presentava alla riunione, si complimentava con loro per i risultati ottenuti e li ringraziava per il lavoro svolto. Ed ascoltava tutti i loro problemi. La libreria virtuale era pronta e si doveva installare in tutte le filiali, cominciando con Melbourne, in Australia. Knut mi chiamò e mi diede la notizia: -Prenota un viaggio a Melbourne per due persone, il più presto possibile. Dobbiamo installare la libreria. -Va bene! Per chi devo prenotare? -Contatta il gruppo di programmatori che hanno disegnato la libreria e chiedi il nome del responsabile della installazione. -E l’altro chi è? -Come chi? Tu, ovviamente. -Io? A installare la libreria? Ma io non sono un ingegnere. -Non serve un ingegnere, serve una persona che conosca come funziona la libreria; tu hai fatto la struttura, tu hai provato come funziona, sei colei che la conosce meglio di tutti, mi sembra logico che sia tu a viaggiare. Una volta installata, devi insegnare ai ragazzi come funziona. -Pure! Fu così che, grazie al modo in cui Knut delegava i compiti, io diventai la prima donna non ingegnere dell’Ericsson ad essere inviata in trasferta per realizzare un lavoro tecnico, dopo aver lavorato solo tre anni nella ditta e per di più, alla filiale più lontana che avevamo: l’Australia! La prima trasferta era per tutti noi un passo importante. A parte il viaggio, era interessante lavorare in un altro Paese, conoscere colleghi di altri posti, ma la sensazione più bella era essere stati scelti per le proprie capacità. Io non solo dovevo provare il funzionamento di una libreria, dovevo anche organizzare un corso in un’altra filiale, con gente che non conoscevo. Sentivo una grande responsabilità e un poco di paura. Knut trovò il modo di tranquillizzarmi: -Non ti preoccupare, la segretaria del capo è una bravissima donna, molto solare e alla mano. Ricorda, è importante fare amicizia con le persone che sembrano “meno importanti”, perché sono loro che veramente ti possono aprire le porte per farti passare dove vuoi. Un portiere, un addetto alla reception, una segretaria. Molte volte queste persone non vengono valorizzate come meritano. Se devi parlare con un alto dirigente ma non hai un appuntamento, la segretaria può trovare quei cinque minuti liberi tra i vari impegni in agenda e farti passare. Chiamò direttamente alla segretaria in Australia, la salutò con molto affetto, le chiese come stava, come stava la famiglia, se c’era troppo lavoro, e le disse scherzosamente che se il capo la stressava lui avrebbe inviato quattro canguri a “metterlo a posto”. Dopo le raccontò della mia trasferta, chiedendole di darmi una mano perché, (usando ancora le sue battute), non sapeva cosa poteva combinare “il ciclone sudamericano” se non riusciva a fare il suo lavoro “downunder” (così ci si riferisce all’Australia). La segretaria rispose con una risata dicendogli di stare tranquillo: a me ci avrebbe pensata lei e non vedeva l’ora di conoscermi. Così faceva Knut molto spesso. Riusciva a convincere con una battuta, con uno scherzo, non ostante le difficoltà. Anzi, diceva che era proprio nel momento più critico che si doveva scherzare, per sdrammatizzare e per non entrare in negatività. Quando una persona ti chiede un favore e ti fa ridere, è difficile non provare almeno ad aiutare. Arrivai a Melbourne una domenica mattina, dopo un viaggio lungo quasi venti ore. Il miglior consiglio per adattarsi al fuso orario era di fare le cose che uno avrebbe fatto se fosse stato a casa. Se si arrivava durante il giorno, non si doveva assolutamente dormire! Altrimenti si correva il rischio di rimanere sveglio tutta la notte. Siccome la mattina dopo avevo un compito importante da svolgere, dopo pranzo andai al cinema. Ricordo che nella sala mostravano il film Croccodile Dundee, uscito qualche mese prima. Cosa c’è di meglio che vederlo nel paese di origine? La prima trasferta andò molto bene. La segretaria era veramente molto simpatica, si chiamava Norma, era nata in India. All’inizio fu difficile far capire agli ingegneri che io non ero andata in Australia per fare formazione alle segretarie ma a loro, ma grazie all’intervento di alcuni colleghi svedesi che lavoravano in sede, alla fine capirono. Ricordavo le parole di Knut quando mi chiamò per partecipare al progetto, parlò delle sfide, delle difficoltà, ma anche delle opportunità che avremmo avuto e delle esperienze che avremmo vissuto, alcune di queste diventarono ricordi per tutta la vita. L’albergo dove abitavo era il cinque stelle più lussuoso di Melbourne. Come parte del servizio ai clienti considerati VIP, per dare il benvenuto si mettevano in bacheca il loro nomi. Quando attraversai l’ingresso per andare alla reception, vide la bacheca con scritto: WELCOME MICHAEL JACKSON AND CHUDY LA ROSA. Tra il 1987 ed il 1989, Michael Jackson realizzò il suo tour mondiale “Bad World Tour”. Il 6 Novembre 1987 ci fu la tappa a Melbourne. Proprio in quei giorni, io ero stata inviata a lavorare a Melbourne, ed alloggiavo nel suo stesso albergo! Un paio di mesi dopo il mio ritorno, il gruppo responsabile di disegnare il flusso per la gestione di progetti organizzò una riunione con noi, membri del Project Management. La metodologia era pronta, il nome era PROPS. La riunione era per presentare il diagramma e spiegare come applicare le procedure e i requisiti della metodologia al nostro progetto. Vedemmo con sollievo che a grosso modo seguivamo tutti i requisiti, dovevamo solo scrivere alcuni documenti nuovi e aggiungere alcune attività di controllo da realizzarsi nell’interfaccia tra una fase e l’altra. Una volta imparato l’uso, la metodologia fu distribuita a tutte le filiali. Da allora in poi il progetto ISDN diventò, a tutti gli effetti, il progetto pilota dell’Ericsson per seguire il requisito ISO. L’esito di esso avrebbe influito nelle future procedure dell’azienda. Come previsto, il progetto richiedeva molte ore di lavoro. Facevamo spesso settimane di 60 ore, il che significava rimanere in ufficio fino alle 8 o 9 di sera, e talvolta andare in ufficio a fare alcune ore il fine settimana. Con il passare delle ore, il resto dei dipendenti spegneva la luce e andava a casa. Restavamo solo noi, i soliti ISDN-are. Se alle 21 ancora eravamo lì a lavorare, Knut usciva in silenzio dal suo ufficio, guardava le luci che erano accese nel corridoio e camminava verso il distributore del caffè. Pochi minuti dopo, entrava in ogni ufficio dove la luce era accesa portando un vassoio improvvisato con un cartone di carta da stampare, pieno di bicchierini di caffè, ne metteva uno sulla scrivania e diceva: -Tieni! Prenditi un caffè, non dire di no perché ho visto che dormivi sopra la tastiera! Era una piccola interruzione di un paio di minuti, i sufficienti per alzare la testa dal computer, sorridere e sentirsi apprezzati. Ovvero, quanto bastava per continuare a dare il meglio di sé. Non saprei dire se questo atteggiamento era tipico della cultura aziendale svedese o se era tipico di lui, ma di certo non era quello che avevo visto nei paesi latino americani o negli USA. Ancora adesso provo ammirazione per una persona che, pur avendo una posizione elevata e una responsabilità molto importante, non aveva remore a scendere dal piedistallo per fare ciò che nella maggior parte di paesi sarebbe stato un compito della segretaria: portare il caffè! E se la segretaria fosse già andata via per il giorno, come nel nostro caso, lui avrebbe chiesto a me di portarle il caffè, solo perché ero una donna e inoltre, non ero un ingegnere. Invece era lui che lo portava a noi, dimostrando che apprezzava il nostro sforzo, facendoci capire che in questa squadra eravamo tutti uguali, a prescindere del nostro compito; questo suo comportamento ispirava in noi tanto rispetto nei suoi confronti. Era passato un anno dall’inizio del progetto. Continuavamo a lavorare contro il tempo per non avere ritardi nella pianificazione. Per poter finire ogni fase del progetto secondo i piani, lavoravamo più delle solite quaranta ore a settimana. Noi membri del Project Management eravamo diventati insostituibili, per la quantità e la diversità di compiti che svolgevamo. La situazione iniziava ad essere stressante soprattutto per chi aveva famiglia e bambini, per via del poco tempo che potevano stare con loro. Era necessario fare qualcosa per mantenere la motivazione alta. Allora abbiamo organizzato una sorta di premiazione per tutti: potevano scegliere un’attività tra quattro, offerte dal progetto, per passare una giornata con la famiglia o gli amici. Le attività erano: un biglietto con cabina sulla minicrociera Stoccolma-Helsinki, un biglietto con ingresso famigliare al parco divertimenti, una cena per quattro persone nel ristorante-discoteca dell’Opera, un trattamento completo per due in una Spa. L’iniziativa fu accolta con entusiasmo, c’erano attività per tutti, per chi aveva bambini il parco divertimenti con le giostre, per le coppie la cena o la Spa; noi giovani soli ci organizzammo in gruppo e prendemmo il viaggio in minicrociera. Era un piccolo respiro che funzionò. Ci avvicinavamo alla fine della fase di disegno per iniziare la fase di collaudo. Era un traguardo molto importante per i rischi che portava. Il gruppo di programmatori sarebbe stato sostituito dal gruppo di collaudatori, ed era importante avere un periodo di sovrapposizione di lavoro, in cui entrambi i gruppi dovevano lavorare insieme, una sorta di trasferimento delle responsabilità dove non si poteva lasciare niente al caso. Knut organizzò una riunione, ancora una volta nella grande sala riunioni. Il motivo era ringraziare i programmatori per il lavoro svolto, e dare il benvenuto ai collaudatori. Lo scopo era di fare che il gruppo appena inserito si identificasse il più presto possibile con il progetto e continuasse a lavorare con la stessa mentalità con cui aveva lavorato il gruppo che lasciava il progetto. Knut fece un riassunto dei due anni passati, ricordando le difficoltà affrontate e ringraziando per la responsabilità con cui ognuno di loro aveva affrontato il lavoro. Come aveva fatto all’inizio, menzionò la fiducia che aveva nel nuovo gruppo, sicuro che ne sarebbero stati all’altezza. Dopo la riunione, nell’atrio della sala, avevamo preparato un rinfresco con bottiglie di spumante per brindare all’evento. C’era molta gente e Knut aveva difficoltà nel farsi sentire da tutti, quindi imprevedibilmente salì su un tavolo con un bicchiere in mano e fece un brindisi alla salute di tutti! Una cosa molto divertente che dimostrò ancora una volta le sue inesauribili risorse per entusiasmare le persone. Il giorno dopo partì in un “giro delle filiali” organizzando riunioni simili. Ci teneva a ringraziare personalmente ognuno dei programmatori che lasciavano il progetto e di dare il benvenuto ad ognuno dei collaudatori che subentravano. Nel periodo di interfaccia tra una fase e l’altra, si incrementò la produzione di documenti. Questo fu causa di un problema imprevisto: la linea italiana era più lenta e si intasò, bloccandone l’ingresso. L’unica soluzione era cambiare la linea per un’altra più potente ma era un’operazione che richiedeva tempo, che non avevamo. Si trovò una soluzione di emergenza, che consisteva in spostare tutti i file intasati a dei nastri magnetici e dopo versarli direttamente nella libreria; finalmente con calma cambiare la linea. Ancora una volta mi sono dovuta recare nella filiale italiana per controllare che, al caricare i documenti, non ci fossero stati problemi come file spariti, file arrivati nella cartella sbagliata, ecc. La fase di collaudo era stata avviata in tutte le sedi. Anche nel gruppo del Project Management ci erano stati dei cambiamenti. Il compito di Thor era finito e lasciò il progetto. Inoltre, si aggiunse al gruppo Gavin, un ragazzo inglese che coordinava le attività di collaudo nelle filiali. Knut aveva ragione quando ci disse che dopo questo progetto avremmo avuto interessanti opportunità di lavoro. Infatti, Thor ritornò all’area Marketing, ma con un contratto a lungo termine nella filiale di Germania. Quando Knut era assente per una delle sue solite visite alle filiali, Thor presiedeva le riunioni del lunedì. Adesso doveva viaggiare e Thor non c’era più tra noi. Allora diede l’incarico a me! Definitivamente era chiedere troppo! Una cosa era fare un corso sulla gestione della libreria a degli ingegneri, perché comunque io conoscevo il tema meglio di loro, ma presiedere una riunione con delle persone che avrebbero parlato del loro mestiere, usando parole di tecnologia che io conoscevo solo per nome, sarebbe stato semplicemente ridicolo. -Perché non lo fa Kent? -Lui è responsabile di una fase del progetto, non lo conosce totalmente. -Ma nelle riunioni parlano di problemi tecnici, io non posso risolvere questi problemi. -Non devi risolverli, devi solo registrarli nel rapporto. E poi, in questa fase di collaudo i problemi tecnici sono responsabilità di Kent, ci penserà lui. Tu pensa solo ad informare loro sulle attività realizzate la settimana scorsa e le attività pianificate per la settimana seguente; scrivi tutte le loro richieste, i loro problemi e le loro eventuali soluzioni. Ogni responsabile ti deve dare la tabella con la quantità di ore/uomo lavorate e le attività realizzate. Loro fanno il lavoro tecnico. Il nostro lavoro è la gestione dell’amministrazione, della burocrazia e la raccolta di informazioni, ovvero si deve facilitare il loro lavoro in modo che possano realizzarlo senza ostacoli. Il lunedì mattina andai alla sala riunioni quando ancora non c’era nessuno. Lasciai il quaderno e la matita sul posto dove sempre sedeva Knut, e aspettai. Quando arrivò il primo gruppo, non vedendo Knut, chiesero dov’era. -In trasferta -Allora la riunione non si fa? -Certo che si fa, ci sono io! -Bene! -dissero, e cominciammo la riunione. Ogni volta che Knut mi metteva in situazioni difficili, sentivo che mi aveva messo davanti al plotone di esecuzione. Per qualche motivo misterioso, i proiettili erano sempre a salve. O forse mi aveva insegnato a indossare il giubbotto antiproiettili. Dopo tanti mesi lavorando insieme ogni giorno, nel gruppo ci conoscevamo molto bene; ma anche se oramai eravamo molto affiatati, avevamo personalità diverse, a volte persino contradittorie; questa diversità, gestita da un bravo leader, invece di causare conflitti diventò la nostra forza. Knut era un grande ottimista, invece Kent era il tipico realista, un poco pessimista. Se l’uno lasciava volare troppo in alto il palloncino dell’entusiasmo, l’altro era pronto a tirare giù la corda, riuscendo così a mantenere il progetto nel giusto equilibrio. Tra noi altri, alcuni erano seri, ad altri piaceva scherzare, così si combinavano stress e risate in giuste dosi. Le diverse personalità erano molto utili quando dovevamo comunicare con le filiali; chiunque abbia lavorato in aziende multinazionali sa che tra le diverse filiali a volte sorgono dei piccoli conflitti nella comunicazione, dovuti non tanto all’idioma diverso quanto alla mentalità diversa; per farsi capire senza fraintendimenti, è importante conoscere la mentalità delle persone con cui bisogna parlare. Nel nostro progetto, Knut sceglieva la persona più adatta per comunicare con ogni sede: Spagna, Italia e Grecia spettavano a me, Inghilterra ed Irlanda a Gavin, Svezia e Francia a Kent mentre ad Australia ci pensava direttamente lui. Come si dice metaforicamente: “parlavamo la stessa lingua”. Un vero leader sa che per portare un gruppo al raggiungimento di un obiettivo è importante non dimenticare che ha davanti delle persone, che ogni professionista è un essere umano con dei problemi, dei sentimenti, delle difficoltà che a volte non potrà mettere da parte durante il lavoro. Knut non era solo il Manager, lui ogni tanto doveva fare il confidente, il consigliere, il fratello, il padre. Quando notava che eravamo in pensiero ci chiedeva quale poteva essere il nostro problema e ci dedicava il tempo necessario per ascoltare e vederne le diverse prospettive. In qualche modo ci aiutava a sentirci più sollevati e proseguire il lavoro con più serenità. Se lo considerava necessario, lui persino ci mandava a casa per il giorno. Pensava che se dovevamo fare presenza fisica senza cervello, era meglio fare assenza totale. “Domani è un altro giorno” -diceva. Con l’inizio della fase di collaudo iniziò anche la fase di trasferimento delle competenze alla sede Ericsson in Australia, dove sarebbe stata gestita in autonomia la seconda versione del progetto, una volta consegnato il nostro prodotto a Telecom Australia. Per gestire il progetto australiano si nominò Graham, un giovane ingegnere che lavorava nella sede di Melbourne. Lui si trasferì a Stoccolma dove sarebbe rimasto per un anno lavorando affianco Knut, formando parte del nostro Reparto. Insieme a lui però arrivò a Stoccolma un rappresentante di Telecom Australia, con il compito di controllare in situ tutto il processo prima della consegna. Aveva chiesto libero acceso alla documentazione, alle riunioni, agli uffici, alle procedure. In poche parole, a Telecom Australia non si poteva nascondere niente! Quando arrivò nell’ufficio di Knut, vedemmo che era un ragazzo giovane, sorridente e un poco timido. Noi non avevamo niente da nascondere, ma se fosse stato più grande di età, troppo serio o troppo rigido sicuramente ci avrebbe messo a disagio. Si supponeva che doveva trascorrere il tempo con Knut, invece lui incaricò la responsabilità a Graham, connazionale e coetaneo, che a sua volta si rivolse a me e agli altri coetanei del progetto per dargli aiuto quando necessario. Noi giovani lo ricevemmo a braccia aperte, lo chiamavamo scherzando Dundee o Skippy the bush kangaroo, per la tele serie australiana degli anni 60. In questo modo fu più facile comunicare con lui, perché non c’era tanta tensione. Così, la nostra “spia” di Telecom Australia diventò un alleato che avrebbe messo una buona parola per noi davanti ai dirigenti australiani. Non tutti gli ostacoli che ci si presentavano erano causati da problemi tecnici o logistici. Questa volta dovevamo affrontare un conflitto con il sindacato. Avevano notato la quantità eccesiva di ore che avevamo registrato durante i due anni che durava il progetto. Un periodo di lavoro con esigenza di straordinario non poteva durare tanto tempo; se facevamo ancora straordinario, avremmo dovuto assumere più personale. Assumere due o tre persone in più era un’alternativa che non ci potevamo permettere; ci avrebbe fatto uscire dai costi previsti, ma soprattutto non c’era tempo per insegnare ad altre persone i nostri compiti. Mancava poco per finire il progetto, avevamo fatto tanto che nessuno di noi pensava arrendersi a pochi passi dal traguardo. Si doveva trovare una soluzione diversa. In questa occasione Knut mise a rischio la sua carriera pur di salvare il progetto. Il piano era non registrare più lo straordinario. Da allora, al raggiungimento delle otto ore al giorno andavamo a timbrare il cartellino e continuavamo a lavorare; le ore in più erano registrate su di un foglio. Alla fine del mese facevamo i conti dei soldi che la ditta ci avrebbe dovuto pagare; siccome le ore non erano state registrate nel cartellino, non potevano essere pagate tramite busta paga, quindi si trovava un altro modo. Certamente, Knut aveva l’approvazione dell’Amministratore Delegato, perché l’importanza del progetto giustificava l’azione, ma se qualcuno dell’Ufficio Personale o del Sindacato avesse indagato, Knut sarebbe stato nei guai, accusato di appropriazione indebita. Nel mio caso in particolare, approfittammo di un secondo viaggio che avrei dovuto fare in Australia per combinarlo con un viaggio per trascorrere le mie vacanze in Peru. Comunque ci dovevo andare, quindi prenotai il biglietto come se fossi dovuta andare in trasferta per un mese in Peru e continuare la trasferta in Australia. Così, mi pagavano le ore di straordinario con il biglietto aereo. Mi fermai un mese in Peru, durante il quale Knut mi chiamava ogni settimana per mantenermi aggiornata, e dopo andai in Australia. Ogni tre anni si faceva la revisione dei contratti collettivi. Ad ogni mansione corrispondeva un codice determinato per l’assegnazione degli stipendi. La mansione Amministratore di Progetti era nuova e non era prevista nei codici. Nel contratto collettivo a cui apparteneva l’Ericsson esistevano due aree: una tecnologica composta da ingegneri laureati e ingegneri diplomati nelle scuole tecniche; un’altra da personale amministrativo che inglobava risorse umane, logistica e segretarie. L’amministrazione di progetti, che gestiva invece la tecnologia, doveva entrare nell’area tecnologica, ma non esisteva un codice adeguato quindi mi assegnarono un codice come neodiplomata di scuola tecnologica. Una soluzione che portava miglioramenti nello stipendio e nella possibilità di fare carriera. Trattandosi del primo progetto gestito con una metodologia determinata, seguendo i requisiti per l’assicurazione della qualità, stavamo aprendo la strada ai progetti che sarebbero seguiti. Una delle raccomandazioni che l’Amministratore Delegato aveva fatto a Knut, era di tenere un registro, una specie di diario con la storia del progetto dall’inizio alla fine. Il registro doveva raccontare soprattutto i problemi che avevamo affrontato e il modo in cui li avevamo risolti. Lo scopo di scrivere questo documento era di lasciare un precedente per i futuri progetti, con l’obiettivo di facilitare il compito dei futuri Project Management. Una delle novità introdotte con il progetto era la mansione di Project Administrator, creata da zero come conseguenza delle procedure, regole e metodologie nuove. Fino ad allora, esisteva la figura della segretaria del progetto, che si occupava di trascrivere la bozza del rapporto e in alcuni casi di aggiornare il diagramma del proseguimento della pianificazione. Tutti gli altri compiti che io avevo svolto nel progetto, erano nuovi. Knut propose al reparto Formazione di organizzare dei corsi per Amministratori di Progetti, una figura che in futuro sarebbe diventata necessaria in tutte le filiali. Organizzammo una riunione con il responsabile del reparto; così fui nominata responsabile della formazione degli amministratori di progetti. Il Capo Reparto si sarebbe occupato di contattare le filiali di Europa ed Australia per comunicare la creazione del nuovo corso e per presentarmi. Il resto dell’organizzazione era sotto la mia responsabilità: contenuto, durata, elaborazione del materiale, scelta dei partecipanti, scelta del luogo. Finalmente il corso aveva una struttura. Durata: una settimana da lunedì a venerdì; contenuto: presentazione di tutte le attività che avevo realizzato, includendo gli ostacoli che si erano presentati e il modo in cui li avevo affrontati; partecipanti: otto per corso, provenienti da otto filiali diverse di Europa ed Australia; luogo: le diverse filiali, a turno. Così cominciai a viaggiare per i corsi tra le filiali di Europa. I partecipanti erano molto entusiasti perché, come me, non erano ingegneri, quindi non avrebbero mai immaginato che sarebbero stati inviati in trasferta per fare un corso che avrebbe portato loro nuove opportunità di lavoro. La motivazione era al massimo. Anch’io mi sentivo motivata, entusiasta ed ansiosa. Certo, avevo già avuto possibilità di dare formazione dentro il progetto, sulla libreria virtuale o sulla metodologia PROPS, ma questa volta avevo una responsabilità molto più grande: i partecipanti non erano parte del progetto, il costo del corso era più alto, dopo il corso dovevano essere in grado di svolgere la mansione, io dovevo essere all’altezza delle aspettative. I corsi furono accettati con grande enfasi, non solo per il contenuto. Lavoravamo dalle 8 alle 17, il resto del giorno eravamo liberi per girare la città, fare shopping, andare ad un museo. Abitavamo tutti nello stesso albergo, quindi passavamo tutto il tempo insieme; condividevamo la vita lavorativa di altre filiali dell’azienda; diventava un gruppo affiatato, si manteneva il contatto anche dopo il corso. L’ultimo giorno organizzavo una cena in un ristorante che offrisse qualche spettacolo tipico della città dove si era svolto il corso. A questo punto, lo stato d’animo era molto alto, e la voglia di dare il meglio di sé era grande, malgrado la consapevolezza delle difficoltà d’affrontare. Alla fine del corso si faceva la valutazione del contenuto e del conferenziere, ossia di me. Devo dire, senza falsa modestia, che erano molto positive! Questa era la politica dell’Ericsson riguardo la formazione. Un principio era che i corsi si dovevano svolgere lontano dal posto di lavoro, se possibile rimanendo insieme per tutta la durata del corso, perché era durante il tempo libero, parlando tra compagni di corso, che i concetti erano affermati. Mancavano un paio di mesi per la fine del progetto. Eravamo dentro il parametro previsto nella pianificazione riguardo il tempo di consegna e il costo totale del progetto. Knut organizzò l’ultimo viaggio in Australia per la chiusura del progetto e la consegna del Sistema ISDN a Telecom Australia. Questa volta viaggiammo noi tre rimasti dopo tre anni di lavoro: Knut, Kent ed io. Per la prima volta in tre anni, non c’era nessuno a Stoccolma per prendersi cura del progetto. Non c’erano attività che non potessero aspettare le due settimane che saremmo stati fuori. Knut organizzò la riunione con tutti i partecipanti, e “passò il mandato” a Graham, che era di ritorno a Melbourne e che da allora era il nuovo Project Manager per ISDN2. Non avevamo più pressione, potevamo goderci la compagnia dei colleghi australiani, e sentire il sollievo dopo tre anni di intenso lavoro. Tornando a Stoccolma, Knut organizzò la riunione di chiusura finale. Per la terza volta, lo scenario fu la grande sala riunioni. Questa volta la sensazione era diversa. Era solo per ringraziare, non c’era più bisogno di motivare, di spronare, di dare fiducia. Era solo ringraziare e augurare il meglio ad ognuno dei presenti. Il discorso di Knut fu molto emozionante: -In questa stesa sala, tre anni fa, cominciò un’avventura piena di problemi. Le persone presenti erano state scelte per la loro capacità. Loro si fidarono di me, tanto quanto io mi fidai di loro. Il gruppo originale fu sostituito da voi, che adesso chiudete con me il progetto. Abbiamo finito in tempo, non abbiamo speso un solo dollaro in più, in una notte abbiamo cambiato il sistema di telefonia meccanica di tutta l’Australia con un sistema di telefonia digitale, ed ha funzionato! Abbiamo gestito un progetto unico nel suo tipo. Siamo stati i primi ad utilizzare la metodologia PROPS e anche i primi ad applicare i requisiti del sistema ISO. Io lo sapevo, ho scelto i migliori! Come Thor, grazie all’esito positivo, anche noi avemmo l’opportunità di scegliere dove lavorare dopo: Knut fu subito nominato Manager di un nuovo progetto, ma con più persone ad affiancarlo per la gestione: due vice manager e due amministratori, uno responsabile dei rapporti e del controllo delle attività, un altro responsabile della libreria. Kent scelse un contratto a lungo termine per lavorare nella filiale di Madrid. A me avevano offerto un contratto a lungo termine in tre filiali: Melbourne, Parigi e Roma. Scelsi Roma, città di cui mi ero innamorata due anni prima, durante la mia prima trasferta. I miei compiti erano: Consulente nella gestione di progetti internazionali e Auditore Interno per l’implementazione del Sistema per l’Assicurazione della Qualità ISO9000. Inoltre, le richieste di corsi per Amministratori di Progetto si incrementarono, perciò il responsabile della Formazione chiese al mio nuovo Capo di Roma di permettermi, solo per un anno, di dedicare il 20% del mio orario di lavoro per continuare a fare corsi. Il gruppo aveva raggiunto buona reputazione per il successo avuto e ognuno di noi fu chiesto di tenere conferenze per altri gruppi nell’area del PM in tutte le filiali Ericsson di Europa. Knut, Kent, Gavin ed io raccontavamo le esperienze acquisite durante i tre anni di durata del progetto ISDN. Così, anche se oramai lavoravamo in paesi diversi, ci ritrovavamo ancora ogni tanto per ricordare il “nostro” progetto. Durante alcuni anni, Knut mantenne il contatto con noi. Spesso chiamava per chiedere se tutto andasse bene. Qualche volta venne a Roma per lavoro e ci vedemmo: lui era sempre il solito. Se ci capitava di andare a Stoccolma, era contento di invitarci a casa sua per una bella cena con la sua famiglia. Con il tempo però, come capita spesso, la vita ci portò tutti verso diverse destinazioni. Lui continuò il contatto con i colleghi che erano rimasti a Stoccolma, anche dopo essere andato in pensione; noi che eravamo nelle altre sedi, lo sentivamo per le Feste, ma sempre meno spesso. L’ultima volta che lo incontrai fu circa otto anni fa, quando andai a Stoccolma a trovare Anette. Negli ultimi anni ho trovato nei social media alcuni dei colleghi che hanno lavorato nel progetto; anche se ci siamo sentiti occasionalmente, il senso di vicinanza è rimasto nonostante il tempo, come se ci fossimo lasciati da poco. Due anni fa, uno di loro, Kenneth, mi avvisò che Knut era malato di cancro, stava facendo le terapie ma purtroppo la malattia era in stadio molto avanzato. Gli chiesi il numero di telefono e chiamai subito. La nostra ultima conversazione fu più o meno così: -Pronto? -Buongiorno! Parlo con il miglior Project Manager di tutti i tempi? -Ma…Chudy! Ti possino!!! Come stai? Dove sei? -Io bene, sono sempre in Italia. Ho parlato con Kenneth. Non c’era bisogno di dire altro. -Hai visto? Questo diavoletto è tosto, ma anch’io lo sono. Se mi vuole prendere dovrà pagare un caro prezzo, mica dico subito “si va bene!” -Lo so che sei tosto, lo ricordo bene, e non solo io. Tante volte ho raccontato a Cris (mio figlio) le cose che mi hai insegnato, e che ancora dopo tanti anni mi servono. A volte gli do un consiglio e gli dico: questa è una lezione di vita. E lui mi dice: Knut Johansen? Si, gli rispondo. Quindi i tuoi insegnamenti li trasmetto a lui. -Allora sicuramente gli andrà bene nella vita. -Penso di sì! -Grazie della chiamata, non me l’aspettavo, mi ha fatto molto piacere. You made my day! (espressione inglese, si potrebbe tradurre: mi hai rallegrato la giornata) -Grazie a te Knut, grazie infinite di tutto…un abbraccio! Gli parlavo sorridendo ma la voce tremava. Avevo bisogno di fargli sapere quanto gli ero grata per aver creduto in me sin dal primo giorno, quando io stessa non credevo in me; lo volevo ringraziare per avermi insegnato a non arrendermi, per avermi dato tante belle opportunità, volevo che sapesse che i suoi insegnamenti continuavano oltre me. Qualche giorno dopo, arrivò il messaggio di Kenneth: Knut se n’era andato. I messaggi tra noi, ex ISDNare, cominciarono a girare nei media, alcuni non avevano avuto notizie di lui per anni, altri lo avevano sentito poco prima. Dopo tanti anni, il ricordo di Knut era per tutti indelebile. Tutti, assolutamente tutti, lo ricordavamo con affetto, con rispetto, con un sorriso. Ricordavamo le sue parole, le sue battute, il suo affetto verso di noi. Tutti, ovunque eravamo nel mondo, sapevamo che avevamo perso il miglior Leader che si poteva avere. Lo avevamo seguito per convinzione, non per obbligazione. Nella inchiesta che avevano fatto all’Ericsson per valutare il personale, lui aveva ottenuto dai suoi collaboratori il 98,9% di approvazione. Aver lavorato con lui era stato un privilegio! Dopo il progetto… • Tu