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«Cu sì scanta rà muarti è un uamu muaittu. Cu arriesta pì com'è vivi pì siempri» («Chi ha paura della morte è un uomo morto. Chi resiste per come vive, vive per sempre») Dentro “Piramide” di Andrea Gioè c’è un figlio che parla al padre, un siciliano che ha vissuto lontano senza smettere di sentirsi tale, un uomo che ha attraversato gli affetti senza indulgere al sentimentalismo e un musicista che rifiuta di trasformare la criminalità organizzata in materiale da cartolina o in folklore da intrattenimento. Una pugnalata nel petto della retorica, spoglia del mito che trasforma la realtà in leggenda e il male spettacolarizzazione del dolore. C’è coscienza del passato, rifiuto dell’indulgenza e della compassione per restare nei fatti, nelle ferite, nella verità nuda e cruda. Sei brani scritti tra il 2004 e il 2017, mai pubblicati prima. Gioè li aveva custoditi come documenti di un tempo irrisolto, appunti di anni in cui le canzoni nascevano per necessità e non per pianificazione. Oggi diventano prova di resa e liberazione, un gesto di riconciliazione con sé stessi e con ciò che il tempo aveva lasciato in sospeso. Nessun ritorno al passato, ma il bisogno di consegnarlo alla luce, una volta per tutte. Ogni brano conserva la temperatura di un’epoca personale e socio-culturale in cui dire la verità significava rischiare qualcosa e la musica era ancora un posto, forse l’unico, dove dirla. Oggi che la Sicilia vive una nuova esposizione mediatica, tra mitizzazioni seriali e rischi di semplificazione narrativa, “Piramide” (A.G. Production / Pirames International), rifiuta la retorica della tragedia spettacolarizzata e interviene lontano da qualsiasi racconto idealizzato. Gioè riporta l’isola alla sua gravità: memoria, famiglia, lavoro interiore, responsabilità civile. Non è un archivio riaperto; è un disco che si mette in ordine e prende forma tra desiderio di cambiamento, rabbia composta, elegia, blues e soprattutto rock’n’roll. Con una scrittura diretta, nervosa, chitarre in primo piano e nessuna smussatura, nessun accomodamento. Il rock, semplicemente, torna a fare il lavoro per cui è nato: stare dalla parte di chi non abbassa lo sguardo. Un modo di tenere la schiena dritta, senza voltarsi dall’altra parte. E vi è una linea morale sottile che attraversa la Sicilia quando rifiuta di farsi mito o vittima. È la stessa fibra che, in altre forme e altri tempi, ha abitato Sciascia, le poesie ferite e fiere di Buttitta, la nudità lirica di Beppe Salvia, gli sguardi senza protezione di Letizia Battaglia. Non si tratta di un'eredità rivendicata, né di genealogia dichiarata, ma dello stesso modo, fermo e consapevole, di stare dentro la realtà delle cose, di chi conosce il peso dei fatti e il dovere di nominarli. L’uso intrecciato di quattro lingue – italiano, francese, inglese e siciliano –è il segno di una vita spesa a guadagnarsi lo spazio per esistere fuori, senza cedere all’autoesotismo né invocare ritorni salvifici. Il brano d’apertura, “Mafia”, è il punto da cui tutto parte. Scritto in francese e siciliano, nasce come denuncia della complicità culturale che circonda il potere criminale. Gioè sceglie il francese per la prima parte del pezzo, come a voler tenere una distanza linguistica da ciò che ferisce se è troppo da vicino, ma la distanza non attenua, semmai, amplifica. «Mafia c’est les larmes d’un homme obligé de quitter sa terre» («La mafia sono le lacrime di un uomo costretto a lasciare la propria terra») In questa frase c’è già tutto: l’esilio, la vergogna, la resa di chi non può restare. La mafia intesa non solo come “male assoluto”, ma come sistema che divora i propri figli, che toglie pane, dignità e casa. «Mafia c’est un père qui se suicide parce qu’il sait plus comment la nourrir» («La mafia è un padre che si suicida perché non sa più come sfamare la famiglia»). Non è una provocazione, ma un fatto sociale che si cela dietro la retorica delle serie TV e delle leggende criminali. Gioè utilizza la sua penna e la sua voce per parlare di miseria e di disperazione quotidiana. È la traduzione più cruda e letterale di cosa significhi vivere sotto il peso della criminalità organizzata, quando il ricatto economico diventa asfissia esistenziale. Un uomo comune schiacciato da un sistema che non lascia via d'uscita, un padre che non sa più come sfamare la famiglia e sceglie di togliersi la vita. È l’effetto collaterale di un territorio abbandonato a sé stesso, senza alternative concrete, senza lavoro e mani tese, solo nel silenzio che presenta il conto finale. Nel passaggio «Tout le monde plaisante sur eux mais eux ne rigolent pas» («Molti scherzano su di loro, ma loro non scherzano affatto»), vi è la condanna al linguaggio collettivo che banalizza il male, che trasforma una ferita in battuta, una tragedia in copione da fiction. Gioè ricorda che dietro quella parola, per altri, c’è un funerale. E in «Réveille-toi! Rebelle-toi! Crie très fort: Vafanculu Mafia!» («Svegliati, ribellati, urla forte: vaffanculo mafia»), non c’è alcun grido politico, ma la stanchezza di chi ha finito le metafore, l’urlo di chi non ce la fa più a vedere il dolore trasformato in icona, la povertà in show. Il "Vafanculu" non è volgarità fine a sé stessa: è l'unica parola possibile quando la retorica non basta più, quando servono gesti netti e linguaggi diretti. È un atto di rottura, il rifiuto secco di ogni complicità. Il siciliano arriva alla fine, come una sorta di sigillo morale: «Cu sì scanta rà muarti è un uamu muaittu. Cu arriesta pì com'è vivi pì siempri» («Chi ha paura della morte è un uomo morto. Chi resiste per come vive, vive per sempre»). È la chiave filosofica del brano, l'eredità di chi ha scelto di non piegarsi. Non è eroismo romanticizzato, è la consapevolezza che la dignità si misura nella capacità di stare in piedi, qualunque sia il prezzo. “Mafia” non denuncia, constata. E nel suo modo asciutto e disperato, dice molto, perché non spiega niente ma mostra tutto. Una dichiarazione di rifiuto, non di odio, e soprattutto, la volontà di non normalizzare più. Poi arriva la title-track, “Piramide”, dedicata al padre. Un dialogo che attraversa la malattia, il lavoro, la fatica di rialzarsi dopo una perdita. «Rassegnare, dimenticare e ricominciare» - canta Gioè -, come chi depone la pietra più pesante per poter tornare a respirare. L’immagine della piramide è costruzione e crollo, impalcatura di vita che si sgretola e poi tenta di ricomporsi. C’è dentro la dignità di chi non si arrende, la malinconia di chi finge normalità pur sapendo che «quel finta fa sentire il nulla dentro te». Le due voci che si rispondono - Paolo Gioè in palermitano e Omar Bakhit in egiziano -, sono due idiomi diversi che si uniscono in un unico lessico, quello del ricordo che diventa linguaggio privo di geografie, culture e religioni. La chiusura – «Ciao Pà, ti voglio bene!» – non è un congedo, ma la forma più diretta di gratitudine e riconciliazione possibile. In “Un Sicilien”, Gioè mette al centro la condizione di chi parte senza smettere di appartenere. Non c’è culto delle origini, ma la consapevolezza concreta di chi porta la propria terra nel modo di guardare il mondo, anziché nei souvenir. Un «volcan d’énergie qui se lève toujours» («vulcano d’energia che continua ad alzarsi»), dove la sicilianità è un modo di stare nel tempo, nella lingua, nella responsabilità verso ciò che si è stati e si è ancora. La voce cambia Paese, cambia accento, ma non abdica a sé stessa. Essere “sicilien”, qui, è portare addosso un’origine senza farne vessillo né alibi. La luce arriva con “Never betray me (... Merry Christmas)”, focus track del disco accompagnata dal videoclip ufficiale presentato in anteprima su Sky TG24. Nata nel 2016 con la band francese Les Branlagats e oggi riarrangiata da Alex Vecchietti, è una canzone sul legame indissolubile tra artista e strumento - «My instrument never betrays me, you stay with me all my life» («Il mio strumento non mi tradisce mai, tu resti con me per tutta la vita») -. Una traccia che non parla solo di musica, ma della necessità di un linguaggio che non tradisca mai e su cui sia sempre possibile fare affidamento, anche nei momenti di smarrimento. Il Natale evocato nel titolo non richiama la festa, ma l’ironia dolente del tempo in cui tutti fingono pace, mentre l’artista sceglie, ancora una volta, la verità. Se “Mafia” metteva a fuoco la sofferenza, “Never betray me (... Merry Christmas)” ne indica la via di salvezza possibile: la musica come unico territorio che non tradisce. Un messaggio asciutto, quasi notarile: quando tutto il resto vacilla, la musica rimane. In “Io, noi due… mai più” Gioè parla d’amore, ma come identità scucita. Quando il sentimento crolla, non resta il romanticismo, ma la perdita del proprio perimetro umano. «Falsa partenza, questa vita qua. Rimango senza, un sogno dentro me. Ed io sono distrutto, non esisto più.» Non è la rottura tra due persone, ma tra l’uomo e la propria immagine. La vita continua, ma non nello stesso corpo. È un dolore che si scrive in levare, come un referto, quello di «un cuore di vetro» che «fragile scoppierà». L’uomo si scopre scarto, avanzo, residuo. Gioè guarda i cocci e non li raccoglie, perché sa che i vetri incollati non tornano trasparenti. L’EP si chiude con “Branlagats blues in Sib”, un pezzo blues che è frizione pura, con la «voglia di salvare la musica e salvare anche noi». Questa linea, che potrebbe sembrare dichiarativa, è in realtà un bilancio morale. Nessuna ambizione salvifica; solo l’ostinazione di chi si sente responsabile di un mestiere e della propria dignità. La musica è rappresentata nella sua essenza più alta, come un lavoro serio, come unico spazio dove l’integrità non si baratta. La «polemica quasi bulimica» citata dall’artista, rappresenta l’accumulo di ciò che non si può più ingoiare in silenzio. Nell’oggi che dilania e ingerisce tutto, anche il dolore, questo brano si rifiuta di essere digerito. «Non volevo più avere paura delle mie stesse canzoni – racconta Andrea Gioè -. Le ho scritte quando non era tempo di pubblicarle. Oggi sì. Non per una questione di ego, ma per responsabilità.» “Piramide” non parla di un artista che si specchia nei propri brani: parla di noi, di un Paese che dimentica e di un Sud che ancora troppo spesso si racconta solo quando serve a vendere. Gioè, invece, sottrae la Sicilia al mito e la riporta alla realtà: una terra che ferisce ma forma, un’eredità che ha un peso, ma un peso che si sceglie ogni giorno di reggere senza retorica, come si fa con ciò che non si eredita, ma si assume. «”Piramide” è per mio padre, ma anche per la mia terra. Ho imparato che si può restare siciliani anche da lontano, purché non si rinunci a dire la verità.» - Andrea Gioè. Tracklist: 1. Mafia 2. Un Sicilien 3. Piramide 4. Never betray me (... Merry Christmas) 5. Io, noi due ... mai più 6. Branlagats blues in Sib
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