Discussione

Coronavirus? Leggiamo Boccaccio!

Coronavirus? Leggiamo Boccaccio!

In questi mesi cupi, capaci mettere in ginocchio tutte le certezze, ho provato a cercare negli scritti dei nostri lontani nonni, storie che possano dare un senso a quello che stiamo vivendo. La maggior parte dei libri attuali, sono incapaci di compiere quella astrazione universale in grado di travalicare il tempo presente dell’autore. Rovistando un po’, in una vecchia libreria di famiglia, ho trovato il Decameron del Boccaccio. Era coperto da un velo di polvere e racchiuso nella sua bella conchiglia di cartone. Inevitabile la serie di starnuti, per via della polvere, che sembravano scandire e rafforzare il senso del tempo e della dimenticanza. Decameron, il simbolo storico della Morte Nera. Il Decameron si apre con la peste nera a cui, Giovanni Boccaccio stesso, ha assistito al suo rientro a Firenze nel 1348. Una pagina tragica e memorabile della letteratura italiana. Immaginiamo che rapida diffusione ebbero le pulci, in un’epoca dove l’igiene, così come la conosciamo, era un concetto inesistente. Pulci in ogni dove, sui vestiti, sui letti, i capelli, di ogni essere umano e in ogni casa. E siccome nessuno sapeva che fossero le pulci a fare il lavoro sporco, vennero lasciate libere di moltiplicarsi, assieme ai topi portatori del morbo. Tutto si abbatté su una Europa indebolita da conflitti sociali e guerre (Guerra dei Cent’anni). Non dimentichiamo, che nella Firenze dell’epoca, morirono dalla metà ai due terzi della popolazione, percentuale variabile a seconda delle fonti. È come se, nella Milano di oggi, ci preparassimo a veder morire tra le 600.000 e le 800.000 persone, di tutte le fasce di età. Le persone, in passato, convivevano con malattie parassitarie, batteri e virus. Questi erano suscettibili di accompagnare gli uomini tutta la vita, se non fossero morti prima. Lo stesso Boccaccio era afflitto, nell’ultimo periodo della vita, da idropisia e scabbia, malattie che oggi farebbero morire di orrore. Nel Decameron, la peste nera costituisce il prologo strumentale al racconto in forma di novelle. Non è solo una straordinaria testimonianza sulla peste, ma anche un libro su come farsene beffa. I novellatori sono un gruppo di giovincelli (7 donne e 3 uomini) che lasciano Firenze per sfuggire alla peste e ritirarsi in un maniero di campagna e lì, raccontare per dieci giorni delle novelle a turno, spesso a sfondo erotico e umoristico. Per i contemporanei, erano dei racconti burleschi per evadere dalla realtà Credo che la centralità, che assume, nel nostro immaginario, il racconto iniziale sulla peste di Firenze, vada oltre le reali intenzioni del Boccaccio. Noi siamo morbosamente attratti dal macabro del racconto e tendiamo quasi a identificare l’opera con esso. I contemporanei del Boccaccio, invece, secondo me, la ritenevano un’occasione per evadere intellettualmente dall’orrore del loro quotidiano, fatto di morte e di precarietà permanente. Le novelle, con quel loro sapore gioviale, umoristico e persino carnale, rappresentano, perciò, quell’ideale impossibile da raggiungere nella quotidianità. A me è piaciuta molto l’interpretazione che ne dà Vittore Branca. Un’opera che ritrarrebbe un mondo, quello medievale, splendidamente al tramonto. Boccaccio, con lui si volta pagina. Boccaccio, rappresenta le classi popolaresche in una chiave ridanciana (espressione del Branca che adoro), a volte burlesca, altre volte seriosa. Classi avulse dai miti eroici cavallereschi, cortesi, romanzeschi e proto-medievali in voga tra le caste politiche e Boccaccio, rappresenta le classi popolaresche in una chiave ridanciana (espressione del Branca che adoro), a volte burlesca, altre volte seriosa. Classi avulse dai miti eroici cavallereschi, cortesi e proto-medievali, in voga tra le caste politiche e intellettuali del tempo. Eppure, le classi rappresentate nel Decameron, sembrano dotate di un proprio eroismo interno, innato, che ha permesso loro di sopravvivere ad ogni sorta di privazione e calamità. Dalle carestie, alle pestilenze, passando per le guerre, sono state costrette, ogni volta, a ricostruire l’intera società. Boccaccio restituisce, così, dignità alle classi ignorate nelle tradizioni dei racconti gentil cortesi. Inscena compassionevolmente questi eroismi popolareschi, per mescolarli alle note di meschinità, volgarità e ardori di carnalità giovanile, insiti nell’uomo atavico. Un atteggiamento letterario che sembra irridente, e forse persino irredento, rispetto ai codici e alle convenzioni morali ed etiche prevalenti. Ma che non lo è. Boccaccio completa, semmai, il trittico medievale, in cui figurano anche Dante e Petrarca (di quest’ultimo era profondo estimatore e devoto amico) aggiungendo una visione popolana e concreta dell’uomo, fin lì considerato prima di tutto come ideale cristiano. Potremmo dire, che il quadro medievale (che per la complessità definirei impressionista) è quasi completo grazie a Boccaccio. Per comprendere la cultura medievale – data la vastità e la durata complessiva del periodo storico definito come medioevo – siamo sempre tentati di ridurla costantemente secondo categorie più vicine ai luoghi comuni che alla verità storica. Boccaccio, antesignano della diversificazione umana, che rifugge sia l’allegoria che la caricatura, per sublimare una più ampia visione collettiva nell’esperienza individuale. L’uomo riconosciuto come entità individuale, anzi individualista, precorritrice di quell’umanesimo “ormai” alle porte. Dico adunque che già erano glia anni della fruttifera incarnazione del figliolo di Dio al numero pervenuti di milletrecentoquarantotto, quando nella egregia città di Florenza (Firenze), oltre a ogni altra italica bellissima, pervenne la mortifera pestilenza; la quale per operazion de’ corpi superiori o per le nostre inique opere da giusta ira di Dio a nostra correzione mandata sopra i mortali, alquanti anni davanti nelle parti orientali incominciata, quelle d’inumerabilie quantità de’ viventi avendo private, senza restar d’un luogo in uno altro continuandosi, verso l’Occidente miserabilmente s’era ampliata. E in quella non valendo alcun senno ne umano provedimento, per lo quale fu da molte immondizie purgata la città da oficiali sopra ciò ordinati e vietato l’entrarvi dentro a ciascun infermo e molti consigli dati a conservazion della sanità , né ancora umili supplicazioni non una volta ma molte e in in processioni, in altre guise a Dio fatte dalle divote persone, quasi nel principio della primavera dell’anno predetto orribilmente cominciò i suoi dolorosi effetti, e in miracolosa maniera, a dimostrare. E non come in oriente aveva fatto, dove a chiunque usciva il sangue dal naso, era manifesto segno di inevitabile morte: ma nascevano nel cominciamento d’essa a’ maschi e femine parimenti o nella anguinaia (inguine) o sotto le ditella (ascelle) certe enfiature, delle quali alcune crescevano come la comunal (comune) mela, altre come uno uovo, e alcune più e alcun altre meno, le quali i volgari niminavan gavoccioli. E dalle due parti del corpo predette infermità a permutare in macchie nere o livide, le quali nelle braccia e per le cosce e in ciascuna altra parte del corpo apparivano a molti, a cui grandi e rade e a cui minute e spesse. E come il gavicciolo primieramente era stato; ancora era certissimo indizio di futura morte, così erano queste e a ciascuno a cui venieno. A cura delle quali infermità né consiglio di medico ne virtù di medicina alcuna pareva che valesse o facesse profitto: anzi, o che la natura del malore nol patisse o che l’ignoranza de’ medicanti, de’ quali, oltre al numero degli scienziati, cosí di femine come d’uomini senza avere alcuna dottrina di medicina avuta mai, era il numero divenuto grandissimo, non conoscesse da che si movesse e per conseguente debito argomento non vi prendesse, non solamente pochi ne guerivano, anzi quasi tutti infra il terzo giorno dall’apparizione de’ sopraddetti segni, chi piú tosto e chi meno, ed i piú senza alcuna febbre o altro accidente morivano. Dalle quali cose e da assai altre a queste simiglianti o maggiori nacquero diverse paure ed imaginazioni in quegli che rimanevano vivi: e tutti quasi ad un fine tiravano assai crudele, ciò era di schifare e di fuggire gl’infermi e le lor cose; e cosí faccendo, si credeva ciascuno a se medesimo salute acquistare. [p. 12 modifica]Ed erano alcuni, li quali avvisavano che il viver moderatamente ed il guardarsi da ogni superfluitá avesse molto a cosí fatto accidente resistere: e fatta lor brigata, da ogni altro separati viveano, ed in quelle case ricogliendosi e racchiudendosi dove niuno infermo fosse e da viver meglio, dilicatissimi cibi ed ottimi vini temperatissimamente usando ed ogni lussuria fuggendo, senza lasciarsi parlare ad alcuno o volere di fuori, di morte o d’infermi alcuna novella sentire, con suoni e con quegli piaceri che aver poteano si dimoravano. Altri, in contraria oppinion tratti, affermavano, il bere assai ed il godere e l’andar cantando attorno e sollazzando ed il sodisfare d’ogni cosa all’appetito, che si potesse, e di ciò che avveniva ridersi e beffarsi esser medicina certissima a tanto male: e cosí come il dicevano, il mettevano in opera a lor potere, il giorno e la notte ora a quella taverna ora a quella altra andando, bevendo senza modo e senza misura, e molto piú ciò per l’altrui case faccendo, solamente che cose vi sentissero che lor venissero a grado o in piacere. E ciò potevan far di leggeri, per ciò che ciascun, quasi non piú viver dovesse, aveva, sí come sè, le sue cose messe in abbandono, di che le piú delle case erano divenute comuni, e cosí l’usava lo straniere, pure che ad esse s’avvenisse, come l’avrebbe il proprio signore usate; e con tutto questo proponimento bestiale sempre gl’infermi fuggivano a lor potere. Ed in tanta afflizione e miseria della nostra cittá era la reverenda autoritá delle leggi, cosí divine come umane, quasi caduta e dissoluta tutta per li ministri ed esecutori di quelle, li quali, sí come gli altri uomini, erano tutti o morti o infermi o si di famiglie rimasi stremi, che uficio alcuno non potean fare; per la qual cosa era a ciascun licito quanto a grado gli era, d’adoperare. Molti altri servavano, tra questi due di sopra detti, una mezzana via: non istrignendosi nelle vivande quanto i primi né nel bere e nell’altre dissoluzioni allargandosi quanto i secondi, ma a sufficienza secondo gli appetiti le cose usavano e senza rinchiudersi andavano attorno, portando nelle mani chi fiori, chi erbe odorifere e chi diverse maniere di spezierie, quelle al naso ponendosi spesso, estimando essere ottima cosa [p. 13 modifica]il cerebro con cotali odori confortare, con ciò fosse cosa che l’aere tutto paresse dal puzzo de’ morti corpi e delle ’nfermitá e delle medicine compreso e puzzolente. Alcuni erano di piú crudel sentimento, come che per avventura piú fosse sicuro, dicendo niuna altra medicina essere contro alle pestilenze migliore né cosí buona come il fuggir loro davanti: e da questo argomento mossi, non curando d’alcuna cosa se non di sè, assai ed uomini e donne abbandonarono la propria cittá, le proprie case, i lor luoghi ed i lor parenti e le lor cose, e cercarono l’altrui o almeno il lor contado, quasi l’ira di Dio, a punire l’iniquitá degli uomini, con quella pestilenza non dove fossero procedesse, ma solamente a coloro opprimere li quali dentro alle mura della lor cittá si trovassero, commossa intendesse, o quasi avvisando, niuna persona in quella dover rimanere e la sua ultima ora esser venuta. E come che questi cosí variamente oppinanti non morissero tutti, non per ciò tutti campavano: anzi, intermandone di ciascuna molti ed in ogni luogo, avendo essi stessi, quando sani erano, esemplo dato a coloro che sani rimanevano, quasi abbandonati per tutto languieno. E lasciamo stare che l’un cittadino l’altro schifasse e quasi niun vicino avesse dell’altro cura ed i parenti insieme rade volte o non mai si visitassero e di lontano, era con sí fatto spavento questa tribulazione entrata ne’ petti degli uomini e delle donne, che l’un fratello l’altro abbandonava ed il zio il nepote e la sorella il fratello e spesse volte la donna il suo marito, e che maggior cosa è e quasi non credibile, li padri e le madri i figliuoli, quasi loro non fossero, di visitare e di servire schifavano. Con Covid-19, il trauma storico della peste si riaffaccia nell’era moderna. A dispetto del tempo nel frattempo evoluto, pare scritto oggi stesso, e non 700 anni fa. E se oggi con tutta la tecnica e l’ingegno finora accumulati, siamo inermi e spaventati, immaginiamo, solo per un attimo, quel che provarono costoro del Boccaccio, i cui mali, rispetto a quello odierno, vanno moltiplicati per cento per ciò che attiene ai sintomi e moltiplicati molto più che per mille per ciò che riguarda i morti. Con il Coronavirus, la peste ci pare tornata di attualità, per quella stessa reazione di sbigottimento e impotenza di fronte alla calamità naturale, nei confronti della quale sembriamo, malgrado i secoli che ci separano da Boccaccio, del tutto sprovveduti e impreparati. Naturalmente, in questo articolo, chiamiamo peste tutti gli eventi calamitosi di tipo infettivo e epidemiologico che abbiano avuto un impatto storico e antropologico di un certo tipo. La peste nera descritta dal Boccaccio era, presumibilmente, quella bubbonica, provocata dal bacillo Yersinia pestis, un batterio trasmesso dai ratti asiatici all’uomo attraverso le pulci. Possibili parallelismi. La nostra civiltà è industriale e post-industriale (terziario avanzato). E’ caratterizzata da surplus produttivo e dalle scorte. Non è dipendente dalla produzione agricola di un certo anno, se non a livello di fluttuazioni dei prezzi di delle materie prime. La società del Boccaccio, era ancora intimamente legata al destino stagionale dei raccolti. Un impatto economico e sociale di portata storica, la peste del 1348 (in realtà 1346-1352) lo ebbe sulla redistribuzione dei redditi e della produzione. Falcidiando un’intera classe di lavoratori agricoli più o meno asserviti, si ingenerò un’enorme disponibilità di terreni per nuovi proprietari, con una carenza inedita di manodopera. Fu l’occasione per nuove rivendicazioni sociali per le classi subalterne. Data la scarsa disponibilità di manodopera, la società del Boccaccio fu “costretta” ad intraprendere una vera e propria rivoluzione tecnica di produzione agricola. Nasce una nuova idea della morte. La grande pestilenza ha introdotto, nell’immaginario collettivo, per tutti i secoli a venire, un nuovo concetto della morte. Nasce la figura della mietitrice come allegoria della pestilenza, in forma di scheletro in groppo ad un cavallo, con una grande falce. Così come il mietitore non fa nessuna distinzione tra le spighe, la mietitrice di uomini falcia tutti indistintamente, a prescindere dalla casta o dalla gerarchia. Per secoli il divario tra i ricchi e i potenti e le classi subalterne sembrava incolmabile. I più poveri e analfabeti erano portati a pensare che i nobili e le alte classi clericali fossero immuni alla morte e alla sofferenza, degli eletti della Divina Provvidenza. La peste stravolge questa visione, tutti sembrano uguali di fronte alla morte. Tutte le classi si svuotano e lo si vede. Nelle città – sorte da non moltissimo dopo secoli di feudalesimo – muoiono in ugual misura, funzionari politici e religiosi, amministratori, nobili, notabili, giudici e appartenenti al terzo e al quarto stato. Il trionfo della morte e la danza macabra sono temi ricorrenti che compaiono ovunque, negli affreschi delle cappelle di campagna o nelle opere monumentali. Come non ricordare il Trionfo della Morte di Bruegel il Vecchio, di due secoli dopo, ispirato proprio all’immaginario trecentesco: Il Trionfo della Morte. https://it.wikipedia.org/wiki/Trionfo_della_Morte_(Bruegel) Nel celebre dipinto di Bruegel il Vecchio, del 1560 c.a., vediamo la mietitrice, sul suo cavallo consunto, intenta a falciare. Se ci concentriamo – cosa non facile perché siamo come rapiti con terrore dalle ridondanti armate della morte – sui singoli personaggi, vedremo apparire praticamente tutti rappresentanti delle classi sociali, dalle già derelitte, fino ad arrivare ad un Re. Lo vediamo lì in basso a sinistra, anch’egli disteso a morte. Capiamo che è il punto più alto del potere temporale, e lo capiamo per via della corona e della toga imperiale. E che dire del Trionfo della Morte di Palermo, del 1446? https://it.wikipedia.org/wiki/Trionfo_della_Morte_(Palermo) E’ di autore sconosciuto, ma probabile influenza mitteleuropea. Precede praticamente di un secolo l’opera di Bruegel, E che dire del Trionfo della Morte di Palermo, del 1446? È di autore sconosciuto, ma probabile influenza mitteleuropea. Precede praticamente di un secolo l’opera di Bruegel, che se ne è probabilmente ispirato, dopo averla vista a Palermo. Eppure, nulla sembra essere cambiato, in un secolo, nella simbologia e persino nella rappresentazione scenica. La morte qui scocca le frecce dal suo cavallo, fatto rivivere per “necessità di servizio”, mentre sembra già in avanzato stato di decomposizione. Vediamo, in basso, i cadaveri delle persone già uccise: imperatori, papi, vescovi, frati (sia francescani che domenicani), poeti, cavalieri e damigelle. Nessuno sfugge alla grande mietitrice. Insomma, semplificando molto, un elemento sconvolgente era entrato nell’immaginario, divenendo elemento ricorrente dell’arte e della cultura. L’unico elemento, che rende il dipinto di Palermo meno terrificante del dipinto di Bruegel, sono i Nobili apparentemente indifferenti o più semplicemente inconsapevoli del raccapriccio in corso. E oggi? In realtà non sappiamo ancora dove ci porterà Covid-19. Dal punto di vista sociale, ho l’impressione che la pandemia esacerberà la disintegrazione sociale e culturale in atto dal ’94. Questi gli aspetti che io vedo emergere. Parcellizzazione dei nuclei sociali ridotti a clan familiari. Ho notato, un’indifferenza strisciante (partorita dalla diffidenza), nei confronti degli esseri umani che non facciano parte del proprio ristretto nucleo di conoscenze e familiare. La riapertura, solo all’apparenza sta riportando il rimescolamento sociale, la casualità di potenziale interazione interpersonali, capace di stimolare la società ad incontrarsi, rinnovarsi e creare nuove opportunità. Tutto mi pare ridotto ad una nuova forma di assembramento individualistico, ignaro, distratto e quasi infastidito dalle interazioni esterne alla propria. Alterazione della soglia di attenzione. Capita sempre più spesso di vedere persone attraversare la strada senza neanche girarsi. Certo, forse questo tipo di comportamento è stato introdotto con gli smartphone, ma credo che la pandemia l’abbia esacerbato fino al parossismo. È come se, in una parte della popolazione, si fosse ormai consolidata l’idea di una società desertificata (come avveniva nei lock-down più intensi), mentre contemporaneamente tutto sta tornando alla normale circolazione. A me è capitato di fare il giro della mia macchina parcheggiata, per aprire lo sportello guidatore invadendo il bordo della carreggiata, senza neanche controllare se passasse qualcuno. Un’orda di ciclisti dalle ambizioni agonistiche, per poco non mi falcia via. Angoscia. A tutti, credo, stia capitando di provare una paura indistinta per il futuro. Questa angoscia si sta tramutando in insonnia, sbalzi di umore, collera e depressione. La mascherina ci ha abituati a non sorridere più. Da semplice smorfia inibita, il non sorridere più sembra essere diventato la nostra attuale condizione interiore. Sull’aspetto economico, invece, credo che la cronaca stia già dicendo tutto. Nel settore secondario, prosegue la desertificazione industriale. Nel terziario, in particolare il commercio, continua il processo di concentrazione operato dalla Grande Distribuzione e dai colossi della vendita on-line, veri vincitori nell’era pandemica. Questo settore, che sembrava l’antidoto al depauperamento industriale, è divenuto lo spartiacque tra il precariato e la lotta di classe. Per quel che riguarda Il terziario avanzato, poi, con la sua futura promessa di creazione di posti di lavoro e di alfabetizzazione tecnologica, è ormai appannaggio delle élite, e lo sarà sempre di più. Paolo Maggioni Conte

 

Grato per l'ampio spazio riservato alla testimonianza letteraria sul Decameron. Mi giunge quasi ormai insperato ciò che non ho trovato in un anno di web letture: un respiro scritturale sulla peste medioevale che trascende la pochezza dei tre paragrafi. L'analisi sociologica dell'impatto pandemico attuale presenta il Covid come acceleratore di processi disgregativi votati ad un ineluttabile declino. Ma in questa prospettiva intendo evidenziare come già Boccaccio proponesse tre implicite risposte alla devastazione: sottrazione, distanziamento, pluralità. I dieci giovani si sottraggono alla Civitas contagiata. Quante volte si è condannata la fuga dal consesso sociale equiparandola ad un rifuggire dalle responsabilità che derivano dal vivere ammassati e costipati in quartieri di soffocata urbanizzazione. È irresponsabilità? No, è necessità e virtù, ci suggerisce il Nostro. I dieci giovani non vivono nelle forme di un assembramento in riva a qualche corso d'acqua o bagnasciuga o stadio, ma nelle forme rituali del cerchio dei narratori, dove al massimo ho alla mia destra e alla mia sinistra un amico. Così non circola caotico il contagio, ma si divide in parti uguali e proporzionate l'emozione del raccontare e del condividere, intellettuale e conviviale. Il distanziamento sociale dovrebbe divenire principio cardine dei futuri modelli di società. Lo spazio attorno a sé come diritto fondamentale. I dieci giovani ne racontano di ogni. Convivenza dei generi, moltiplicazione dei personaggi, degli intrecci, delle trame. Contro gli schemi ripetitivi della fiaba, basata come diceva Calvino sulla ricombinazione di poche varianti ricorsiva, la novella è esplosiva ricerca della imprevedibile affabulazione e reinvenzione di una socio-diversità che sopravvive per merito dell'evoluzione moltiplicatoria delle sue specie immaginariotipe. In epoca di abbruttente trap, di mercificatorio spaccio di stilemi hypeizzati, si rispolverino i gioiosi calderoni poligenetici del progressive. Vissuto il dramma della Peste, il Boccaccio attualissimo può indicarci ancora oggi la via che non passa dall'idiozia del ritorno alla precedente normalità. Del restauro di valori sociali che producono solo mortifere pandemie.

 

Ben presto crollerà l'illusione di una monocratica risposta pantecnologico-vaccinale alle crisi periodiche delle ondate virali, e allora dovremo cominciare ad attrezzarci con strumenti migliori, anche rileggendo a fondo insegnamenti antichi.