Questo articolo rappresenta il naturale proseguimento di un racconto già iniziato, un nuovo capitolo che svela ciò che restava ancora in ombra. Il suo personaggio nasce da una frattura. Prima di diventare ciò che è oggi — artista, performer, volto televisivo — era un manager di successo nel settore commerciale. Una carriera costruita con tenacia, sacrifici, rinunce. Ma proprio all’apice, qualcosa si spezza. In 24 ore perde il lavoro. A 42 anni, con un curriculum di tutto rispetto, si ritrova fuori dal sistema. E nessuno lo vuole più. Separato più volte, padre presente ma spesso costretto a scegliere tra famiglia e carriera, si ritrova solo. E il crollo professionale diventa anche personale. «Mi è crollato il mondo addosso», confessa. Per la prima volta, racconta pubblicamente il suo momento più buio: «Avevo deciso di suicidarmi. Non potevo accettare di essere passato dalle stelle alle stalle». Il piano era preciso. Un tubo di gomma, i gas di scarico dell’auto, un punto isolato della città. Ma qualcosa accade. Invece di comprare il tubo, acquista un panno in microfibra e uno spray per vetri. Esce dal negozio e si mette a pulire i vetri delle auto al semaforo, vestito da manager. La scena è surreale. Eppure, è lì che comincia la sua rinascita. La gente lo guarda, gli dà 3,00-5,00 euro. Lui racconta la sua storia a chiunque lo ascolti. «Sono un ex manager, ho pagato le tasse tutta la vita. Ora sono senza lavoro. Lo Stato dov’è?» La sua voce, la sua presenza, la sua verità attirano l’attenzione. Un giornalista, Dario Miceli della RAI, lo nota. Lo racconta. Lo rende visibile. «Devo tutto a lui», dice commosso. «È stato il primo a puntare i riflettori su di me». Da quel momento, qualcosa cambia. I giornalisti iniziano a cercarlo. Lui capisce che deve fare qualcosa. E torna alle sue radici. Da bambino, la maestra lo chiamava “l’artista”. Aveva il teatro nel sangue. Così, a 44 anni, con umiltà e paura, si rimette in gioco. Comincia a interpretare Renato Zero, suo mito d’infanzia. Il primo spettacolo lo fa in carcere, ai Pagliarelli di Palermo. Un atto di beneficenza, ma anche di riconoscenza. «Non voglio premiare i criminali», precisa. «Ma nel momento del bisogno, ho rischiato anch’io. E per lo Stato italiano, comunque, è un reato. Quando lo feci io, non era depenalizzato. Oggi c’è persino un codice ATECO per chi offre il corpo, si chiama prostituzione. Ma allora si andava in galera. Io l’ho fatto. Ma attenzione: non facevo il pappone. Io vendevo me stesso. Mi spostavo in tutta Italia». È difficile dirlo. Lo ammette. Ma lo fa. «È stata la disperazione a portarmi lì. Ho fatto qualcosa di illegale, ma senza mai ledere nessuno. Non ho mai rubato, né venduto droga. Ho sempre avuto i miei valori. Nella mia scala, anche se vendevo me stesso, non facevo male a nessuno. Però era un reato. E rischiavo la galera». Ecco perché ha cominciato proprio dai carcerati. «Pensavo che magari in galera ci fosse qualcuno come me, che per bisogno aveva commesso un reato minore. Io ho avuto fortuna. Ma volevo esorcizzare quel rischio. Ogni anno ci torno. È diventata una missione. Faccio spettacoli di beneficenza dentro le carceri, in tutta Italia». Così è nato il suo personaggio artistico. «È nato in galera, praticamente». E da lì ha cominciato a costruire. Spettacoli musicali, poi le prime comparse in TV. «Ho sempre amato le telecamere. Ho cominciato dal gradino più basso. Prima comparsa, poi figurazione. E piano piano, qualcosa si è mosso». Oggi, guarda alla vita con occhi diversi. «Il dono più grande che possiamo avere è la vita. Anche chi non ha salute, se è vivo, può ancora sperare. Io ho imparato a sdrammatizzare. Non mi fa paura niente. Morirò con il sorriso. Per stare bene, guardo chi sta peggio di me. Non chi sta meglio». Non ha mai leccato i politici per lavorare. «Scrivetelo a caratteri cubitali. Non sono mai sceso a compromessi. Ho i miei valori. Ho amato la vita, le donne, la bella vita. Ma sempre rispettando il prossimo. Non ho mai corteggiato una donna impegnata. Mai. Sono fatto così». Un po’ come Califano, dice. «Ho vissuto ai limiti del rischio. Ma senza mai fare male a nessuno. Rispetto tutto e tutti. Se non condivido, non devo per forza vedere. Forse è per questo che amo la mia solitudine». Riceve tante proposte, ma ne accetta poche. «Non per presunzione. Per rispetto dei miei sacrifici. Non voglio tornare indietro. Se ho lavorato con i protagonisti, non accetto ruoli minori. Non mi sono montato la testa. Mi potete trovare a tavola con un clochard». E così, da una discesa vertiginosa, è nato un personaggio che oggi regala emozioni, verità, e soprattutto dignità. Un uomo che ha scelto di raccontarsi, senza filtri. E che, nel farlo, ha regalato a chi ascolta un esempio raro di coraggio e umanità. Ogni anno, il 24 dicembre, organizza uno spettacolo di beneficenza per i poveri della sua città, Palermo. «Lo faccio perché so cosa significa non avere nulla. Lo sa perché faccio tanta beneficenza? Perché anch’io ho vissuto momenti bruttissimi. Momenti in cui non avevo un centesimo per comprarmi un panino al panificio. E non mi vergogno a dirlo. Le vergogne per me sono altre. La vergogna è quando, per sopravvivere, si fa male agli altri. Quella sì che è vergogna. Ma quando non fai male a nessuno, non c’è nulla di cui vergognarsi». Ha vissuto la fame, la solitudine, l’umiliazione. E le ha superate. «A chi leggerà questa intervista voglio dire: non abbattetevi mai. Sbracciatevi, combattete, reinventatevi. Oggi è fondamentale sapersi reinventare. Il mondo corre, cambia in fretta. Il tempo che ti specializzi in qualcosa, quel settore è già cambiato. Bisogna essere flessibili, creativi, coraggiosi. Ma senza mai perdere di vista i valori: il rispetto per l’umanità, per la vita». La sua voce si fa più grave quando parla della violenza che vede intorno. «Oggi c’è tanta violenza gratuita. Giovani che escono armati, e invece di divertirsi, finiscono in galera o peggio. Perché? Per una lite, un diverbio. Ai miei tempi si poteva litigare, magari anche prendersi a pugni, ma dopo mezz’ora si faceva pace. Oggi no. Oggi la gente è incattivita. E questo mi fa paura». Poi, con un’emozione che torna a farsi viva, confida uno dei suoi sogni più grandi. «Mi piacerebbe avere tanti soldi. Ma non per me. Se avessi le possibilità economiche, adotterei tutti i bambini del mondo. Me li prenderei tutti. Vorrei fare il papà di tanti bambini, crescerli, garantire loro un futuro, una casa, un tetto. Vorrei costruire una città con tutte le strutture necessarie, e accogliere i bambini che non hanno papà e mamma. Quelli che hanno bisogno di calore, di famiglia». Si commuove. «Le guerre uccidono bambini innocenti. Bambini che non hanno nessuna colpa, se non quella di essere nati. Tutto questo mi fa molto male. Perché, nonostante la mia vita possa sembrare quella di uno stravagante — le donne, la bella vita — io sono troppo sensibile. Somatizzo tutto. Quello che accade nel mondo mi rende profondamente triste». E poi conclude, con una semplicità che disarma: «Non penso alla carriera, al successo. Non mi interessa. A me basta lavorare per sopravvivere. Se avessi di più, lo userei per fare del bene agli altri. Non per me. Io sto bene già così». La storia di Nicola non si esaurisce qui. Accanto al percorso di caduta e rinascita raccontato sopra, esistono capitoli precedenti e paralleli che completano il mosaico della sua vita artistica e personale. Ritornando agli anni ’90, quando Nicola Giosuè attraversa un periodo complesso, segnato da difficoltà economiche e personali, con la schiettezza che lo contraddistingue, racconta di aver intrapreso, per ben diciassette anni, un percorso non convenzionale, spesso giudicato e non permesso dalla legge, ma che rappresentò una scelta di sopravvivenza. «Non ero il ragazzo da una botta e via», sottolinea. «Io donavo emozioni, costruivo relazioni vere, selezionavo con chi condividere il mio tempo. Non erano clienti, erano partner». La sua cifra distintiva era la capacità di trasformare ogni incontro in un’esperienza teatrale, completa, fatta di complicità e atmosfera. Un proverbio che ama ripetere sintetizza bene la sua filosofia: «Un gentiluomo gode e tace». E così, senza mai rivelare nomi, Nicola accenna a donne di potere, imprenditrici di successo, persino mogli di politici. Relazioni che, oltre a sostenerlo economicamente, gli permisero di ricostruirsi dopo fallimenti e bancarotte. Il percorso di Nicola non si ferma qui. Tra settembre 1992 e settembre 1993, durante l’obbligo del servizio militare, vive inizialmente con sofferenza quell’esperienza, aggravata dalla malattia del padre. Ma a Pantelleria, il comandante Tartamella di Trapani riconosce le sue doti artistiche e gli affida la gestione degli eventi del circolo ufficiali. Ogni fine settimana diventa un palcoscenico di feste e spettacoli, dove Nicola si afferma come intrattenitore e organizzatore. Trasferito poi a Palermo, incontra il comandante Mario Tempra (Napoli), che lo inserisce nel circolo estivo degli ufficiali presso lo stabilimento balneare Addaura. Qui, insieme al maresciallo Giovanni Caianiello, direttore artistico e oggi scrittore, dà vita a spettacoli indimenticabili. «Io non ho un semplice percorso artistico», racconta. «Il mio percorso artistico è la mia vita. L’arte è sempre stata con me». Pantelleria rimane un luogo centrale nella sua storia. «Pantelleria o ti ama o ti odia», dice. Per lui, l’isola ha sempre rappresentato un richiamo irresistibile. Dopo l’esperienza militare, ogni volta che sente il bisogno di ispirazione artistica, torna lì, soprattutto d’inverno, quando il silenzio favorisce la creazione. Tra i legami più significativi, Nicola cita Letizia Brugnone, conosciuta negli anni ’90 e sempre presente nei momenti importanti. «È una donna che merita tantissimo», afferma con emozione. «Mi ha accolto, sostenuto, accudito. Pantelleria non è solo un luogo di ispirazione, ma anche di affetti profondi». Tre luoghi definiscono la sua identità: Pantelleria, Palermo e Napoli. «Dopo la mia morte, voglio che le mie ceneri siano divise tra questi tre luoghi», confida. «Pantelleria come fonte di energia, Palermo come terra di vita e Napoli come eredità familiare». La storia di Nicola Giosuè, unita nelle sue diverse sfaccettature, è quella di un uomo che ha trasformato ogni esperienza – dalla caduta professionale alla rinascita artistica, dalle relazioni segrete al servizio militare, dai palcoscenici improvvisati alle missioni di beneficenza – in un capitolo di resilienza e verità. Un percorso che dimostra come l’arte non sia mai stata un mestiere, ma la trama stessa della sua esistenza. Articolo: Dott.ssa Mietto Elisa Dirigente del servizio: Ufficio Stampa & Produzioni MP di Salvo De Vita Resp. e Tutela Immagine: Dott. Salvo De Vita Distribuzione Nazionale Digitale: Urban Dream di Mietto Elisa