C’è chi, per raccontarsi, inventa una maschera. Altri trasformano il cambiamento in un personaggio, e ne fanno un concept. Matteo St Fedele compie il percorso inverso: rinuncia al filtro dell’alter ego e si firma con il proprio nome. Nel riflesso scheggiato di uno specchio, l’artista milanese ha deciso di guardarsi davvero. Non più da personaggio, ma da persona. Venerdì 13 Giugno esce “Mostro”, il suo nuovo singolo che chiude idealmente il percorso cominciato con il mini EP triple track “Generazione XXX” e inaugura ufficialmente una nuova fase artistica: quella che coincide con l’addio a MADMATT e con l’affermazione di un nome che è insieme identità, storia e scelta. Una dichiarazione di guerra e di pace con sé stessi. Una resa dei conti quotidiana, che si consuma in silenzio e che tutti affrontiamo ogni volta che smettiamo di recitare: oltre la superficie, oltre le corazze: «Perdonami stanotte, amore ho fatto a botte con me stesso allo specchio che si è rotto in un vizio». “Mostro “non è solo la cronaca di una caduta, ma anche l’anticipazione di una risalita. Nelle sue parole, Matteo dà spazio al dolore, ma lascia aperto uno spiraglio, una possibilità di rinascita: «E allora vedrai, il mostro che è in me. Nulla che non possa vincere». È un corpo a corpo con la depressione, la dipendenza, l’auto-sabotaggio. Una notte lunga una vita, in cui i pensieri diventano nemici e l’identità si frantuma. La produzione, asciutta ed essenziale, accompagna un testo che sprofonda nella psiche di una generazione sospesa tra iper-esposizione e assenza di parola. Lo special del brano, quasi spoken word in stile conscious rap, prende posizione contro l’omologazione e la superficialità dell’era digitale - «Non ti esprimi a parole, fenomeni sui social, ma dal vivo hai un neurone» -, spostando il focus dal contesto alla coscienza. Un flusso, un atto d’accusa, e insieme un’esortazione a riappropriarsi del linguaggio, del corpo, dell’identità: «Un chitarrista cieco, ma una Guernica d’amore». Nessun moralismo. Nessuna lezione. Solo un’immagine che resta incollata alla testa. Non è un inciso. È un colpo secco. Uno sfogo scritto senza tentare di addolcire niente, né per sé né per chi ascolta. Senza effetti speciali. Solo ritmo e frustrazione. Il tono è ruvido, quasi parlato. Ma poi succede qualcosa. Un verso spezza l’equilibrio, sposta il baricentro, apre un varco imprevisto: «Quarta Dimensione, la mia propensione a non essere una retta, una lunghezza un’estensione.» Non è una semplice trovata poetica. È il punto in cui “Mostro” abbandona il racconto per interrogarsi sulla percezione del tempo, sull’identità come forma fluida e non misurabile. La “quarta dimensione” non è un’astrazione, è uno stato, una condizione mentale. Lo spazio altro in cui la linearità e la logica vengono sospesi. È la zona grigia tra chi si è e chi si vorrebbe essere, l’istante in cui si consuma la frattura tra ciò che si è e ciò che non si riesce ad accettare. Non una fuga, ma un territorio di collisione. Quello di chi si sente fuori asse, fuori tempo, fuori campo. Di chi vive scostato rispetto alla traiettoria attesa. Mentre tutto intorno corre e si misura in termini di performance, velocità e coordinate, Matteo St Fedele rivendica il diritto a una dimensione non quantificabile: quella della coscienza che vacilla, dell’Io che si scompone e si ricompone. E la nomina con una semplicità disarmante, quasi scientifica, e al tempo stesso la carica di un senso esistenziale profondo: la metrica si spezza, il significato si espande. La canzone si apre così a una zona instabile e inquieta: un pensiero che non si può ordinare, un’identità che non si può spiegare con coerenza. Qui il brano si fa quasi esistenzialista, scavando nei paradossi della percezione e nel senso di smarrimento che accomuna un mondo costantemente connesso ma incapace di ritrovarsi. È in questa interzona che si consuma il conflitto centrale del pezzo: tra il bisogno di riconoscersi e la paura di farlo davvero. In un tempo in cui mostrarsi è diventato quasi un obbligo, “Mostro” propone l’esatto contrario: fermarsi a guardare ciò che non si mostra. Dare un volto ai propri fantasmi. E magari, un giorno, accettarli. Con una scrittura sempre più adulta, Matteo St Fedele si distacca dal personaggio e si mette a nudo. Senza sovrastrutture, senza maschere. Solo con il proprio nome. In “Mostro”, si confronta con la parte più oscura di sé, ma lo fa con una postura nuova: non più difensiva, non più ribelle, ma finalmente vulnerabile. Il brano si fa politico, nel senso più alto: perché parlare apertamente di salute mentale, di dipendenza, di crisi di identità, in un’epoca di estetica curata e narrazioni vincenti, è un gesto radicale. Un invito a non semplificarsi, a non censurarsi, a non recitare più. «”Mostro” chiude simbolicamente due anni della mia vita – afferma Matteo St Fedele -, e lo fa facendomi finalmente fare pace con me stesso. È lo specchio con cui tutti ci confrontiamo, ogni giorno. A volte ci restituisce un’immagine distorta, che non riconosciamo, che ci fa paura. Ma ci dà anche una possibilità: quella di riuscire, un giorno, a guardarsi e accettarsi. Per questo oggi non sono più MADMATT. Oggi sono Matteo St Fedele, con tutto quello che significa.» Il cambio nome, da MADMATT a Matteo St Fedele, è parte integrante di questa narrazione. Non è una trovata di marketing, né una maschera nuova. È il contrario. È il momento in cui si smette di recitare. Un ritorno all’essenziale, alla propria storia, al proprio cognome. Un modo per dire: non devo più interpretarmi. Adesso mi firmo. “Mostro” non dà risposte. Non cerca redenzione. Ma fa una cosa più importante: chiede di fermarsi a guardare. Anche dove fa più male. Perché oggi, accettarsi senza filtri, è forse il gesto più coraggioso che ci sia.